Ultimo Aggiornamento:
03 giugno 2023
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Argomenti

Elezioni di midterm: uno "stile ansioso" nella politica statunitense?

Duccio Basosi * - 08.11.2014

Gli esperti di cose statunitensi si stanno esercitando da qualche giorno nella valutazione degli scenari aperti dalle elezioni legislative di midterm del 4 novembre, che hanno consegnato al Partito Repubblicano la maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Unanime pare, in ogni caso, il giudizio secondo il quale l'elettorato ha voluto punire il Presidente Barack Obama, percepito come oscillante e incerto tanto in politica estera quanto in politica interna. Comprensibilmente, a sei anni dalla sua prima trionfale elezione sulle ali di un linguaggio estremamente coinvolgente, molti commentatori si sono concentrati sulla retorica che Obama non è (più) in grado di sciorinare, sul disegno complessivo che non è in grado di tracciare, sulle risposte che non è in grado di dare (con la celebre uscita sui modi per affrontare l'ISIS, "non abbiamo ancora un piano", assurta ormai a vero e proprio tormentone).

 

Peccato, perché nel corso di questa campagna elettorale Obama ha usato parole che, per quanto inefficaci ai fini elettorali, sono tutt'altro che prive di interesse per comprendere il presente statunitense. Se "speranza" era stata la parola chiave del linguaggio obamiano nel 2009, quella del 2014 è stata senza dubbio "ansia". In forma di sostantivo o di aggettivo, il presidente ha fatto riferimento al concetto non meno di trenta volte nel corso dell'anno. Nessun altro presidente prima di lui, nemmeno Herbert Hoover ai tempi della Grande Depressione, ha calcato così tanto la mano sul tema. In parte ciò deve riflettere lo stato psicologico dello stesso presidente, che anche nel commentare i risultati elettorali si è detto "ansioso" di iniziare a lavorare col nuovo Congresso. Ben più spesso, però, Obama si è lanciato in ragionamenti a voce alta su quello che deve apparirgli come uno stato psicologico generalizzato fra i suoi concittadini. leggi tutto

I diritti dei migranti. La presa di posizione della Chiesa cattolica in America centrale e negli Stati Uniti.

Claudio Ferlan - 24.07.2014

Nell’omelia della messa celebrata domenica scorsa nella cattedrale di Tegucigalpa (Honduras) il cardinale Maradiaga ha pronunciato parole dure, usando toni che ricordano la scomunica lanciata da papa Francesco contro i mafiosi. Il cardinale ha tuonato contro i coyotes, come vengono chiamati i trafficanti di persone che organizzano i viaggi della disperazione e con loro si arricchiscono. Coyote perché sono animali infidi, che si accaniscono su chi non si può difendere, mordono e fuggono. Ha detto Maradiaga: dovrebbero essere rinchiusi in carcere perché vivono dello sfruttamento dei poveri, dovrebbero pentirsi perché mettono in pericolo la vita dei sofferenti, dei bambini in particolare, aggiungendo che l’immigrazione non deve essere vista come un male. La sua non è una voce di poco conto nella gerarchia ecclesiastica leggi tutto

La politica ambientale di Obama

Alessandra Bitumi * - 10.06.2014

L’Environment Protection Agency (EPA), l’agenzia federale americana per la Protezione dell’Ambiente, ha annunciato il 2 giugno scorso la nuova proposta di politica ambientale dell’Amministrazione Obama. Approvata per decreto dal Presidente sulla base del Clean Air Act degli anni ‘70, il provvedimento impone alle centrali elettriche di ridurre le emissioni di biossido di carbonio del 30% rispetto ai livelli del 2005.

Entro il 2030, gli stati dovranno tagliare i livelli di CO2 prodotti dalle oltre 600 centrali attive nel paese, responsabili oggi del 38% dei gas inquinanti. Insieme ai trasporti (32%), esse costituiscono le principali fonti di inquinamento negli Stati Uniti. La flessibilità del governo federale rispetto alle modalità di applicazione del decreto lascia ampia discrezionalità ai singoli stati che possono scegliere quale strategia attuare. Potrebbero incentivare la creazione di mercati statali di “cap-and-trade”, ovvero fissare un tetto massimo di emissioni consentite e regolare la possibilità per le aziende di comprare e vendere la propria quota di inquinamento. O potrebbero decidere di promuovere l’uso di fonti alternative piuttosto che sostenere misure di risparmio energetico.  Qual è il significato politico di questa decisione e quali sono le sue implicazioni? leggi tutto

Geithner, Berlusconi e la sindrome del complotto

Giovanni Bernardini - 20.05.2014

Verrebbe quasi voglia di ringraziarlo, mister Timothy Geithner. Dopo mesi di scie chimiche, microchip sottopelle e altre diavolerie pentastellate, un complotto vecchio stile rischia persino di provocare un bagno di realismo. Tutti i canoni del genere compaiono in dodici righe del voluminoso tomo a cui l’ex Segretario del Tesoro statunitense ha affidato la propria versione della crisi finanziaria del 2008 e l’apologia del suo (contestato) operato per contenerla. Gli ingredienti del thriller: nel 2011 non meglio precisati “funzionari europei”, inquieti per lo stato delle finanze italiane, avrebbero cercato di persuadere Geithner e il suo governo a condizionare la concessione di un prestito del Fondo Monetario Internazionale all’Italia alle dimissioni del Primo Ministro Berlusconi. Con pathos degno di una fiction, l’amministrazione Obama avrebbe infine concluso di non potersi macchiare “del sangue” (sic) di Berlusconi. Un quadro a tinte forti ma poco chiare, se poco sopra Geithner attribuisce ad altrettanto vaghi “leader europei” contraddittorie richieste di aiuto nel moderare l’“avara” Angela Merkel. Oltre la teatralità del racconto, emerge la tradizionale difficoltà delle amministrazioni statunitensi a dialogare con un’Europa in cui non è mai chiaro chi parli a nome di chi: da decenni ogni sano confronto transatlantico è pregiudicato dalla dualità costante e competitiva tra governi nazionali e autorità di Bruxelles, ovviamente a spese del Vecchio Continente. leggi tutto

Il “Secolo del Pacifico”? Obama e il pivot asiatico

Alessandra Bitumi * - 20.05.2014

Nell’autunno del 2011, l’Amministrazione Obama annunciò il riposizionamento strategico e operativo statunitense nella regione dell’Asia-Pacifico, ritenuta centrale nella definizione delle priorità geopolitiche americane. Uno dei primi passi verso la costruzione di una cornice militare per la strategia del cosiddetto “Asia pivot” fu l’intesa con l’Australia sull’invio di 2500 marines nella base di Darwin. Era il novembre del 2011 e il “New York Times” definiva la decisione come “la più grande espansione della presenza americana nel Pacifico dai tempi della Guerra del Vietnam”. Da quali premesse originava questa rinnovata attenzione di Washington per l’Estremo Oriente? Quali obiettivi intendeva perseguire l’Amministrazione Obama e cosa ci suggerisce, rispetto alle ambizioni iniziali, il bilancio odierno?

Alla svolta asiatica hanno concorso molteplici fattori. Il primo, la percezione della minaccia cinese. All’impetuosa crescita economica di Pechino, si sono affiancati progressivamente un crescente attivismo militare del paese e un incremento leggi tutto