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Partiti da ridefinire
Nell’attesa di vedere se e come la maggioranza di destra-centro che ha vinto le elezioni riuscirà a mettere in piedi un governo all’altezza delle sfide che ci troviamo davanti, a tenere banco è, o dovrebbe essere la necessità più o meno di tutti i partiti di ridefinirsi. Nessuno, infatti, è uscito dalla prova elettorale con un accreditamento della fisionomia con cui si era presentato ai votanti.
Persino il partito con il risultato più forte, cioè FdI, può dire di essere stato oggetto di una adesione del tutto convinta a quella che era la sua fisionomia, perché appare sempre più evidente che a vincere è stata Giorgia Meloni, cioè la leader che è riuscita ad accreditarsi come personalmente in grado di guidare il paese nelle difficili contingenze che abbiamo davanti. Effettivamente lei stessa ne è consapevole, tanto che ha impostato tutta la sua azione in questa fase di transizione obbligata come guidata da prudenza, da assenza di retoriche sopra le righe, da ricerca di trovare legittimazione presso il più ampio spettro possibile di opinione pubblica. Questo però pone in questione il suo partito, che non è affatto chiaro se sia disposto a mettersi sostanzialmente su questa nuova via e sia attrezzato per farlo. Non se ne parla leggi tutto
Illuminismo e antilluminismo in una politica magmatica
Tutto si è dissolto e anche l'ultima speranza, il grande tecnocrate salvatore, ha fatto quel che poteva e lì si è arenato, senza colpa e con il grazie di tanti. Alla ricerca di una direzione si è tornati alla politica; ma la politica è ancora quel che era quando si chiamò il salvatore, un magma senza forma che una sinistra senza consistenza ideale o pratica ha messo in mano a una destra che a sua volta non si sa cosa sia, sconfitta per due terzi e tutta una giravolta nel suo partito leader. Un magma senza forma in cui l'unica speranza è che questo partito leader si comporti da partito conservatore tradizionale. Speriamo pure; ma come chiederglielo se anch'esso non sa cosa può essere?
Eccomi qui a parlare perché sono un cittadino, ignorante come una capra, ma un cittadino ed è da questa possibilità data alle capre in una società aperta e costituzionale che si parte. La libertà di parola è il fondamento primo perché libertà di parola vuol dire libertà di pensare. Siamo d'accordo ritengo, però qui casca l'asino. Siamo in grado, tutti e ugualmente, di pensare e di pensare in modo autonomo e di pensare in modo consapevole? Ho sentito gente dire cose insulse, cose leggi tutto
Il voto del 2022 nelle "capitali regionali"
Il voto del 25 settembre nelle "capitali regionali" (i capoluoghi di regione) ha rispettato la tradizione. Il centrosinistra è molto più forte che a livello nazionale, mentre la destra è più debole. La coalizione della Meloni è passata dal 31,2% al 33,9%, mentre quella di Letta è al 33,1% (32,9% nel 2018); seguono il M5s col 16,5% (31,1%) e Azione/Italia viva col 10,2% (non presente quattro anni fa). L'affluenza è passata dal 70,6% (72,9% nazionale) del 2018 al 64,1% (63,9% nazionale), scendendo meno che nel resto d'Italia e allineandosi quasi perfettamente al dato complessivo. Resta il fatto, però, che è stato un gioco "a perdere": la destra ha avuto 1,512 milioni di voti (74mila in meno che nel 2018), il centrosinistra 1,478 (198mila in meno), il M5s 0,737 (844mila in meno); ha guadagnato solo Calenda (455mila voti) solo perché nel 2018 alle politiche non c'era. La differenza fra risultati nelle capitali regionali e resto del Paese è notevole, come si diceva: la destra perde il 9,8%, il centrosinistra guadagna il 7%, il M5s ha un +1,1% e Azione/Italia viva è a +2,4%. A livello territoriale, nelle metropoli, i rapporti di forza fra i poli sono i seguenti: Nord-Ovest, destra 33,9%, centrosinistra 37,1%, M5s 10,5%, Az/Iv 12,5%; Nord-Est, destra 39%, centrosinistra 33,3%, M5s 8,3%, Az/Iv 8,6%; Centro "ex rosso", destra 29,5%, centrosinistra 41%, M5s 10,8%, Az/Iv 11,6%; Roma, destra 37,4%, centrosinistra 32,4%, M5s 14,1%, Az/Iv 10,8%; Sud, destra 29,8%, centrosinistra 25,1%, M5s 33,8%, Az/Iv 5,9%; Isole, destra 30%, centrosinistra 23,1%, M5s 32,1%, Az/Iv 5,9%. Fra i leggi tutto
Una svolta o un ciclo storico?
Lasciamo perdere le stucchevoli analisi sul ritorno al potere dell’estrema destra dopo il fallimento di Mussolini e settant’anni di antifascismo. È roba da storici improvvisati o da banali seguaci dei riflessi di Pavlov di una cultura politica di scarsissimo spessore. Quel che è accaduto con le elezioni di domenica 25 settembre 2022 è un fenomeno noto agli storici: la reazione ad una fase di esasperazione del cambiamento nei momenti di transizione storica.
Paradossalmente Enrico Letta è riuscito ad imporre la sua visione dello scontro elettorale come un confronto fra noi e loro, noi dei “diritti” e loro della “negazione dei diritti”. Solo che non ha capito che da un lato quella esasperazione dei cosiddetti diritti era respinta da una ampia quota della popolazione già incerta sul futuro che la attende, mentre dall’altra più che di negazione dei diritti si parlava di fermarsi nella corsa al sempre più innovativo, di riscoprire il valore connettivo delle impostazioni più o meno tradizionali lasciateci da una storia pregressa. Giorgia Meloni ha colto il punto e si è affermata come leader di una svolta, riducendo il peso delle esasperazioni che stavano nel suo campo, cioè le sparate di Salvini, che a sua volta propone un mondo che non esiste, e le utopie leggi tutto
Meloni è un fenomeno da valutare seriamente
Non mi scaldano molto i dibattiti su quanti angeli possono stare sulla punta di un ago ovvero, in termini contemporanei, se Giorgia Meloni sia fascista o meno. Una frase polemica la prima, che pare sia stata ideata fra Cinque e Seicento nella letteratura anticattolica dei protestanti inglesi, e un quesito altrettanto polemico il secondo su cui si può dipingere con tutte le tavolozze del mondo e che dice soprattutto una cosa, che l'Italia non è ancora riuscita a superare il trauma del fascismo storico. Il fascismo fu la catastrofe di un sogno di grandezza basato sull'ignoranza italiana, sia popolare che colta, della storia occidentale e della geopolitica degli anni Venti e Trenta. Lo sfracellarsi dell'arretratezza italiana. E dal momento che il dopoguerra non ha potuto ovviare che in parte a quell'arretratezza, per ragioni legate innanzi tutto alla Guerra fredda e ai suoi “impedimenta”, eccoci ancora a dibattere sul fascismo come indicano, ad esempio, i tanti documentari su Mussolini, la Marcia su Roma, l'alleanza con Hitler ecc. che riciclano le stesse immagini e gli stessi concetti ormai più tralatizi che profondi. E tutti cambiano canale non per desiderio di una migliore conoscenza, ma perché si annoiano. Finita la Guerra fredda e sia leggi tutto
Il voto regionale nei capoluoghi: 2018-2020
Le elezioni regionali del periodo 2018-2020 nelle quindici regioni a statuto ordinario hanno visto il destracentro e il centrosinistra divisi da circa dodici punti percentuali, un margine più ridotto rispetto ai ventuno delle europee e ai quattordici delle politiche. È stata, questa, l'occasione per Pd e alleati per riuscire a sorpassare il polo concorrente nei capoluoghi di regione: 40,2% contro 36,7% (tutti i dati sono ricavati dal mio volume "Le elezioni regionali in Italia", Il Mulino 2020). Come nelle precedenti tornate elettorali, il recupero del centrosinistra sul destracentro è stato rilevante: il 15,7%, contro il 19,6% delle europee 2019 e l'11,2% delle politiche 2018. Tutto è stato dovuto al consueto debole insediamento della Lega nei capoluoghi (-7,9%) e al buon risultato del Pd (+3,2%); Forza Italia (+0,5% nei capoluoghi) e Fratelli d'Italia (-0,2%) hanno sostanzialmente dimostrato una certa impermeabilità alla differenza centro-periferia; buono il risultato del M5s (+2,8%), a fronte però di un deludentissimo dato globale (12,2% nel complesso delle quindici regioni). Osservando le variazioni relative in percentuale fra questo ciclo di regionali e il precedente e confrontandole con quelle nei capoluoghi, vediamo che Forza Italia ha perso il 5,6% nel complesso, ma solo il 5% nelle città; la Lega ha guadagnato il 12,7%, ma "solo" il 9,4% nei capoluoghi. L'andamento nelle aree geografiche conferma il miglior rendimento "cittadino" del Pd leggi tutto
Alla vigilia del voto
Si trascina stancamente verso il D-Day una campagna elettorale caratterizzata dalle invettive e dalle accuse incrociate e sbiadita nei contenuti, probabilmente la più scialba degli ultimi decenni, dall’esito condizionato dai sondaggi e largamente previsto.
Una guerra lampo dopo la caduta del governo Draghi, dove le tattiche hanno prevalso sulle strategie, decisamente autoreferenziale nella rappresentazione di scenari apocalittici, con molte comparse e qualche primattore, condizionata da eventi internazionali come la guerra in Ucraina e la crisi energetica, priva di programmi di breve e medio termine, in conflitto con se stessa tra governo delle larghe intese e rimasugli di retaggi ideologici, sostanzialmente e decisamente molto confusa.
Il tema veramente prioritario della crisi climatica è stato solo sfiorato, purtroppo l’alluvione nelle Marche ha messo le forze politiche al cospetto della propria latitanza.
Il timore è che il gap che separa ormai da tempo il paese legale e della rappresentanza nelle istituzioni da quello reale della società civile finisca per radicarsi nell’astensionismo: l’indecisione degli scettici è certamente miscelata con l’indifferenza e la delusione dei potenziali elettori.
La riduzione del numero dei parlamentari da eleggere ha favorito una gestione verticale e personalistica delle candidature: pochi i chiamati, scarsa la rappresentanza della società civile, alcune conferme e altrettante rinunce
Democrazia illiberale?
Ci si conceda di toglierci dal frastuono elettoralistico che cresce in quest’ultima settimana e di affrontare, speriamo in maniera appropriata, un tema molto serio venuto malamente alla ribalta con la faccenda della condanna del parlamento europeo e della Commissione europea al sistema politico messo in piedi dal presidente ungherese Orban (vedremo poi se il Consiglio Europeo darà seguito a queste decisioni – ne dubitiamo).
Come tutti sanno, coloro che hanno approvato quella condanna hanno messo in rilievo che il sistema politico ungherese viola il modello costituzionale alla base del patto su cui si è costruita la Unione Europea. Quei non molti che hanno obiettato, fra cui in Italia Lega e FdI con i loro leader, l’hanno fatto sulla base dell’argomento che Orban è stato regolarmente eletto in competizioni almeno formalmente aperte. Dunque si sarebbero rispettate le regole della democrazia, che affida la sovranità al popolo, ma si è sorvolato sul fatto che il leader ungherese e vari suoi seguaci hanno apertamente parlato di “democrazia illiberale”.
Quella definizione è un ossimoro, ovvero una definizione che unisce due termini fra loro in contrasto, oppure non lo è, perché il liberalismo (meglio: il costituzionalismo liberale) è al massimo una delle forme che può assumere la democrazia, la quale potrebbe esistere leggi tutto
Una donna a Palazzo Chigi? Qualche nota a proposito di Meloni e di una campagna elettorale senza qualità
Nel corso di una campagna elettorale che non si staglia certo, per usare un eufemismo, per livelli qualitativamente alti dal punto di vista dei contenuti, una tematica che avrebbe potuto utilmente rappresentare uno dei problemi importanti intorno ai quali focalizzare trasversalmente, da parte dei partiti, l’attenzione degli elettori sarebbe stata sicuramente quella del ruolo delle donne, della necessità di un loro effettivo riconoscimento nella società e nella politica e di quali concrete misure occorra darsi carico in proposito. Tutto ciò sarebbe stato (e il condizionale è, come sopra, assolutamente d’obbligo!) ancora più necessario nell’era pandemica che da più da due anni a questa parte stiamo attraversando e che ha visto soprattutto le donne pagare un prezzo molto più alto rispetto ai loro colleghi maschi sotto il profilo professionale; problema che, come fior fiore di dati mostra ormai da tempo, viene universalmente riconosciuto, sulla carta almeno, come urgenza cui metter mano da parte della politica. E invece… sì, proprio così: al di là delle dichiarazioni di rito dei vari leader dei partiti, tutti pronti a stracciarsi le vesti e a spergiurare che sì certamente, imbracceranno con convinzione la causa delle donne, una volta che saranno arrivati alla vittoria finale, la campagna elettorale leggi tutto
Le "capitali regionali" nel 2019
Il nostro viaggio nel voto delle "capitali regionali" prosegue con le elezioni europee del 2019, che videro la grande vittoria della Lega. In quella occasione, le liste di centrodestra ottennero il 49,6% dei voti a livello nazionale, contro il 28,7% del centrosinistra e il 17,1% del M5s. Una situazione che - forse incautamente - accostiamo a quella immaginata da taluni per il 2022 (ma che nessuno può dire se sia verosimile o meno, tanto più in un periodo nel quale non ci sono sondaggi, quindi resta tutto una pura ipotesi). Ebbene, nel 2019, nei capoluoghi di regione (oggetto di un mio volume sulle elezioni europee pubblicato quell'anno dal Mulino) il centrodestra ebbe il 39,1% contro il 37,8% del centrosinistra e il 17,6% del M5s. In pratica, come nel 2018, una competizione impossibile fra i due poli tradizionali diveniva non solo probabile ma reale nelle grandi città, dove solo l'1,3% li separava (contro il 20,9% nazionale). Anche in questo caso, il rendimento delle liste nei comuni maggiori rispetto agli altri è stato differente da partito a partito: Forza Italia ha perso l'1,1% nelle "capitali regionali" dove Fratelli d'Italia ha invece ottenuto lo stesso risultato che altrove, mentre la Lega ha avuto il 24,9% contro il 34,3% nazionale (-9,4%); rilevante la differenza a favore del Pd (+7,7%) e da segnalare leggi tutto