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Troppi personaggi in cerca di autore
Sul proscenio della politica italiana si agitano troppi personaggi in cerca d’autore e si fatica ad intravedere un qualche copione che possa fungere da filo conduttore di una recita ormai sempre più confusa e incomprensibile. Ovviamente questo vale soprattutto per il fronte anti salviniano che oggi sostiene il governo, ma anche a destra non mancano i problemi.
Ad oggi i 5Stelle si trovano senza leadership, in caduta libera nei sondaggi, di fronte ad elezioni regionali che li vedranno ancora sconfitti, in contrapposizione con altre componenti di governo su alcuni temi per loro centrali in quanto espressione della loro identità alternativa o delle loro scelte precedenti, quando erano al governo con la Lega. Gli Stati generali previsti per marzo e di cui non si sa ancora nulla non saranno in alcun modo risolutivi perché tra i parlamentari e i pochi militanti ancora rimasti a livello locale le divisioni e le diversità di collocazione e posizionamento sono così radicate da rendere poco credibile un convinto esito unitario in un senso o nell’altro. E quindi o si arriverà ad un’unità di facciata destinata a durare poco o si certificherà una divisione che ridurrà ulteriormente il loro peso politico. Grillo non parla, e si leggi tutto
L’ora dei politicanti
Capirci qualcosa nell’attuale avvitarsi su sé stessa della nostra politica è impresa titanica. Naturalmente ognuno accusa gli altri di giocare allo sfascio, ma nessuno fa nulla per evitare che si arrivi a quel punto, a meno che non consideriamo impegni per uscire dal pantano le manovre messe in piedi da una classe politica vittima del suo autismo.
Apparentemente tutta la questione ruoterebbe intorno a Renzi e alla necessità di mettere fine alla sua guerra da corsa nel quadro di questa politica instabile. Difficile negare che il leader di Italia Viva sia una volta di più vittima del suo limite, che ci permettiamo di definire la sindrome di Napoleone. Come il grande Corso, Renzi è condizionato dalla sua storia di successi iniziali, quando, assai giovane, è riuscito a rovesciare avversari molto più agguerriti osando sfidarli in battaglie campali. Così pensa di non poter recedere da quello schema e lo ripropone in continuazione senza rendersi conto che così ha sperperato il capitale che aveva accumulato. In politica non basta infatti il fiuto di intestarsi battaglie di grande significato: bisogno sapere controllare l’uso della forza. Così Renzi ha buttato alle ortiche i successi del suo governo per una gestione dissennata della riforma costituzionale, ed ora si leggi tutto
Il referendum invisibile
Manca solo un mese e mezzo al voto per il referendum costituzionale sulla diminuzione del numero dei parlamentari da 945 a 600, ma nessuno ne discute. Un po' perché la gran parte degli italiani è favorevole alla riforma, quindi - fra il sì e il no - non c'è partita. Un po' perché - al di là del merito e delle ragioni di sostenitori e oppositori, che rispettiamo ma che esulano da questa nota - il voto ha un valore politico prossimo allo zero. Forse neanche il M5s, che ha tanto voluto questa legge costituzionale, pensa che il referendum possa portargli un beneficio elettorale, perché la vera prova da superare è quella delle regionali di maggio. Il fatto è che intorno a questa micro-riforma istituzionale i giochi si sono già fatti: finora, l'unico merito (a seconda dei punti di vista, poi) che ha avuto sta nell'aver reso impossibile o almeno poco praticabile l'ipotesi di uno scioglimento delle Camere a fine gennaio. Senza la riforma, una vittoria di Salvini in Emilia-Romagna (che fino a poche ore prima del voto era giudicata probabile da quasi tutti gli analisti e da molti politici) avrebbe portato alla crisi di governo e alle elezioni anticipate in aprile. Invece, nonostante le bizze di alcune forze leggi tutto
Quella ruota che gira nella storia
La metafora della ruota che gira, evocata da Casini nel suo intervento in Senato durante il dibattito che ha poi consegnato Salvini alla giustizia ordinaria per la vicenda della nave Gregoretti, ha più di un significato storico e politico, oltre l’allegoria popolare che vuole che chi oggi giudica potrà attendersi di essere un domani giudicato. Detta dal parlamentare di più lungo corso, uomo di centro, moderato e prudente ha il significato del ricordo e quello della profezia. C’entrano i corsi e ricorsi di Vico, il “verrà un giorno” di Manzoni e la sequela infinita dei ribaltamenti che nella storia hanno spesso scardinato le sicumere del presente. Brutta pagina quella scritta il 12 febbraio al Senato della Repubblica: perché la politica – che sempre rivendica la propria autonomia con la triplice benedizione di Montesquieu - ha rinunciato a risolvere una questione politica nel suo ambito naturale, caricandola di significati giustizialisti e di un livore punitivo che stona se proviene da fonti solitamente ispirate al buonismo, al perdonismo e al garantismo.
Quei banchi vuoti del Governo (anche se la sua presenza non era prevista ne’ obbligatoria) la dicono lunga su un atteggiamento pregiudiziale di disdegno e di disprezzo, esprimono, insieme agli interventi dei senatori di leggi tutto
Una maggioranza senza politica
Nel 1979 Federico Fellini girò quello che lui definì un filmetto. S’intitolava Prova d’orchestra e metteva alla gogna un’orchestra con i vari strumentisti incapaci di fare appunto il lavoro corale che veniva loro richiesto, bisticciandosi, astraendosi e evitando di seguire qualsiasi indicazione del direttore. Venne interpretato come un grido di allarme e di rigetto della politica italiana incapace di ritrovare il senso del suo stare insieme in uno stato di grave disgregazione (un anno prima era stato assassinato dalle BR Aldo Moro)..
E’ una pellicola che andrebbe riproposta alla più che confusa classe politica attuale. La vicenda della crisi intorno alla norma sulla riforma della prescrizione, frettolosamente introdotta ormai un anno fa da grillini alla ricerca del plauso dei loro fan club giacobini, mette in luce non modi diversi, magari opposti di intendere la soluzione degli impasse del sistema giudiziario italiano, ma un degrado complessivo della nostra cultura istituzionale.
Non è solo questione della valutazione in sé della norma, che è quasi certamente incostituzionale per ragioni che sono state ribadite più volte da autorevoli commentatori. Quel che è peggio è come si sta cercando di gestire il pastrocchio che ci si trova davanti.
Tutto è stato ridotto alla più trita lotta fra fazioni politiche, leggi tutto
Regionali: è la prossima la prova più dura per il M5s
Nelle nove regioni a statuto ordinario nelle quali si è rinnovato il Consiglio, fra il 2018 e il gennaio scorso, il M5s ha ottenuto 2,139 milioni di voti contro i 4,636 delle politiche, perdendone il 53,9%. In percentuale assoluta è passato dal 28,3% del 2018 al 15,2%. Rispetto alle regionali precedenti, i pentastellati hanno raccolto addirittura 69mila voti in più. Tuttavia, il calo percentuale rispetto alle politiche è stato del 13,1%, mentre fra le regionali 2013-'15 e le politiche del 2013 era stato del 9,1%. In sintesi, le regionali hanno penalizzato anche stavolta i Cinquestelle, ma più che in passato, facendo perdere loro - come si accennava - 539 voti su mille delle politiche, mentre nel 2013-'15 il calo era stato leggermente minore (502 su mille). Una spiegazione può essere rintracciata nella maggiore o minore vicinanza fra il turno elettorale regionale e le elezioni politiche precedenti: nelle consultazioni locali svolte nel 2018, il M5s ha conservato il 66,9% dei voti delle elezioni generali (2013: 58,8%); tuttavia, nel 2019 è sceso al 36,4% (prec. 40,2%) e nel 2020 al 27,6% (prec. 35,8%). In pratica, più tempo passa dalle politiche, più i Cinquestelle perdono i loro elettori che li hanno scelti per la Camera e per il Senato. In questa occasione il calo è stato più marcato che nel passaggio 2013-'15 in cinque casi su nove (tre degli altri quattro sono relativi ad elezioni leggi tutto
L’instabilità del quadro politico italiano
Il quadro politico italiano rimane instabile, perché è privo di centri capaci di organizzarlo in maniera tanto accettabile, quanto adeguata alle sfide che sono sul tappeto. Parliamo di centri al plurale, perché continuiamo a credere che sia un falso problema quello della ricostruzione di un mitico “Centro” così come per un quarantennio sarebbe stata la Democrazia Cristiana.
Quel partito fu, almeno per una lunga fase, certamente tale per la sua contrapposizione alla “sinistra” identificata nell’alternativa del comunismo che pretendeva di egemonizzarla. Non lo fu in assoluto perché, anche qui per un tratto non breve, si considerò una componente essenziale del riformismo italiano. Come sempre nella storia si può discutere sulla tipologia di quel riformismo, ma è difficile negare che molte delle trasformazioni dell’Italia dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta furono gestite dalla DC in rapporto, dialettico, ma fino ad un certo punto, col riformismo laico, prima dei repubblicani e presto, superati un po’ di muri ideologici, anche dei socialisti.
Certo il riformismo democristiano stava in un partito che teneva dentro anche una forte componente conservatrice (in alcune appendici assai contigua alla destra), ma ciò avveniva per l’imposizione da parte della Chiesa dell’unità politica dei cattolici. Vale invece maggiormente la pena di leggi tutto
Radicalismo e centrismo: due miti della politica italiana
La tornata elettorale di domenica 26 gennaio ha riportato in auge due eterni miti della politica italiana: il radicalismo e il centrismo. In verità mentre il primo si tira in ballo a proposito, il secondo è stato richiamato in maniera strumentale, ma tant’è: sono due vecchi concetti che si rincorrono in tutte le lotte politiche e non solo in quelle del nostro paese.
Il radicalismo, che qui, lo chiariamo subito, non ha niente a che fare con la storia e l’ideologia del partito radicale italiano, è quell’approccio che muove dalla convinzione che per conquistare il consenso sia necessario portare all’estremo le argomentazioni che si propongono. Spesso si coniuga con la demagogia, ma di per sé non necessariamente. Di radicalismo ha fatto largo uso la Lega per propria tradizione, ma ultimamente Matteo Salvini ci ha aggiunto una dose massiccia di demagogia. La sostanza di queste proposte è che il mondo si divida nettamente in due: i buoni e i cattivi, gli angeli e i demoni, i prescelti dal Signore e quelli destinati a priori alla dannazione.
Non si tratta di una prerogativa della destra, perché è uno schema di lotta ampiamente usato anche a sinistra. Proprio le elezioni regionali in Emilia Romagna (non sapremmo dire se leggi tutto
Appunti sul voto di domenica scorsa
È stato già scritto molto - quasi tutto - sul voto del 26 gennaio in Emilia-Romagna e Calabria. Ci limitiamo dunque, in questa sede, a sottolineare alcuni aspetti particolarmente significativi. Il primo è che il voto regionale non è necessariamente l'occasione per astenersi. Il fatto che nello stesso giorno in Calabria abbia votato il 42,5% (ricalcolato escludendo gli italiani all'estero: 52,3%) e in Emilia-Romagna il 67,7% (71,3%) non è affatto dovuto alla tradizione che vede il Sud più astensionista del Nord. Nel 2014, in Emilia-Romagna si votò meno che in Calabria. La differenza sta nelle motivazioni che spingono gli elettori a recarsi alle urne. Mentre per le politiche c'è un costante interesse generale, per altri tipi di consultazione bisogna tenere conto di tre fattori: 1) c'è una quota di elettori che vota sempre, indipendentemente da tutto; 2) c'è una fascia che vota se la competizione è in bilico o comunque aperta, cioè se il proprio voto conta e può decidere la gara; 3) se ci sono motivazioni mobilitanti (la nazionalizzazione della campagna, per esempio). In Calabria l'esito era scontato: lo si capiva leggendo delle vicende che avevano preceduto la presentazione delle candidature e l'evoluzione politica locale. Quindi, complice il fatto che la partita nazionale si giocava altrove e che la Calabria è una regione che "si può leggi tutto
I buoi e la stalla
Normalmente non è considerata operazione intelligente quella di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. Eppure è esattamente quello che ha fatto Di Maio con le sue dimissioni. Nel rendicontare puntigliosamente tutti i risultati positivi conseguiti dal movimento da lui guidato negli ultimi due anni si è dimenticato di dire alcune cose: che già pochi mesi dopo la nascita del primo governo Conte quasi metà degli elettori se ne era andata con la Lega; che dal fatidico giorno in cui il Movimento ha raggiunto il 32% a livello nazionale ha perso, e malamente, tutte le elezioni amministrative e quelle europee; che nelle ultime settimane è stato consistente il passaggio di parlamentari nel gruppo misto e qualcuno anche nella Lega; che, al di là degli attacchi espliciti di pochi, il Movimento era diventato ingovernabile e di fatto non governato; che le riforme organizzative annunciate molti mesi fa sono arrivate solo ieri in zona Cesarini.
Quindi le dimissioni (tardive) di Di Maio sono un fulgido esempio di chiusura della stalla quando ormai è quasi vuota.
Nello stesso tempo è evidente che le dimissioni hanno una forte componente tattica in vista degli stati generali che i terranno a marzo. Se fosse arrivato a quelle assise ancora in carica leggi tutto