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Una fase complicata

Paolo Pombeni - 11.01.2017
Renzi e Gentiloni

Non è un momento facile per la politica italiana, sebbene guardando alla situazione da un altro angolo di osservazione la si potrebbe ritenere molto più tranquilla di quanto si prevedeva agli inizi di dicembre. Se infatti ci limitiamo a considerare l’avvio del governo Gentiloni, non possiamo far a meno di notare che esso non è, almeno per ora, né la fotocopia o l’avatar del governo Renzi, ma neppure un esecutivo fantasma messo lì solo per scaldare la sedia. Con tutti i limiti che gli impone la contingenza, Gentiloni e i suoi ministri chiave (su altri è opportuno stendere un velo pietoso) stanno assolvendo in maniera più che dignitosa il compito di gestire la “amministrazione” (e in qualche caso “il governo”) di una delicata fase di passaggio.

Infatti il tema centrale è proprio dato dalla precarietà in cui il paese è immerso circa la ridefinizione degli equilibri politici delle sue classi dirigenti: a cominciare da quelle parlamentari e governative, ma poi a cascata tutte le altre, perché in Italia tutto è connesso.

La prima delicatissima questione che verrà in campo, proprio quando i lettori avranno davanti questo articolo, è la posizione e il ruolo che verrà ad assumere la Corte Costituzionale. Una spericolata scelta delle classi politiche è stata quella di chiederle di scendere in campo dirimendo, sotto un mantello formalmente giuridico, scontri di potere. Sia i referendum proposti dalla CGIL che le valutazioni richieste sull’Italicum questo di fatto sono: non questioni di corrispondenza o meno di leggi dello stato a principi costituzionali, ma faccende che riguardano la capacità di governo delle dinamiche politiche da parte del parlamento. Dovrebbe essere il terreno tipico per la produzione di atti normativi affidati alla dialettica che si esprime nelle Camere rappresentative. Siccome lì non si riesce a trovare un meccanismo finale di legittimazione, si cerca di scaricare il compito sulla Consulta nell’illusione che potendo essa nascondersi dietro la imparzialità della legge si riesca così a giungere a risultati vincolanti e non discutibili.

Vedremo se la Corte si farà condizionare in questo senso. C’è da sperare che non sia così, perché finirebbe per essere indebolita nella sua funzione e usata sempre più come valvola di sfogo delle tensioni politiche. Non conviene a nessuno, in primis ai giudici della Consulta. La decisione sul referendum promosso dalla GCIL è solo il preludio, perché la prova suprema sarà il giudizio sull’Italicum.

La questione di fondo rimane infatti come arrivare al redde rationem su chi sarà il perno della inevitabile ricostruzione a cui l’Italia deve, prima o poi, essere avviata. Questa è la vera domanda che corre nei gruppi dirigenti del paese. Non si tratta di immaginare necessariamente un uomo più o meno solo al comando, ma di ragionare, come direbbero i tedeschi, su una “costellazione” che deve venire messa in piedi per gestire il passaggio ricostruttivo.

Qui il problema preliminare è capire se Grillo e il suo movimento saranno più o meno in grado di attirare a loro il consenso di chi non è più disposto a scommettere sulla capacità di riformarsi degli attuali partiti. Si sospetta che questo consenso possa essere così cospicuo da consegnare il paese al M5S, solo che questo sia disposto a far spazio a un po’ di classe dirigente all’altezza e presa fuori dai suoi ranghi tradizionali: ma disponibilità in questo senso il fondatore e i vertici pentastellati ne lasciano filtrare ogni giorno.

Come si può battere questo assalto? La domanda interessa tutti gli altri, anche se le risposte sono variegate. All’estremo c’è la scommessa della Lega che pensa che una soluzione “lepenista” possa prosciugare l’acqua in cui navigano i pesci grillini. Anche qui c’è però il tema di una alta improbabilità che da solo il partito di Salvini possa avere il consenso necessario per l’operazione, mentre la strategia che persegue non è di quelle adatte a compattare altre forze attorno a sé.

L’alternativa dell’estrema sinistra è molto debole: può solo concorrere a bloccare i disegni delle stabilizzazioni moderate, ma lo fa a servizio di forze che sono all’opposto delle sue visioni (che, per la verità, si fa fatica a capire quali siano).

Il vero rebus è oggi dato dalle forze che rappresentano o dovrebbero rappresentare le tradizioni di governo del nostro paese. Né il PD né quel che resta dell’antico arcipelago berlusconiano, più i piccoli vassalli che ciascuno di essi si porta dietro, sembra avere chiaro su quale piano di ricostruzione si possa aggregare il numero necessario di italiani per poter dar vita ad una vera forza di governo all’altezza delle sfide che abbiamo davanti. Entrambi i gruppi si affannano a cercar di varare un sistema elettorale che risolva per loro il problema di produrre la conquista del “centro vitale” del sistema: che fare lo si deciderà una volta realizzata l’impresa lasciandosi sostanzialmente aperte tutte le prospettive, sia quella che il vincitore possa essere uno solo dei due contendenti, sia quella che convenga loro coalizzarsi insieme per un po’ per difendersi da assalti esterni.

E’ però dubbio che il progetto di conquista del “centro vitale” del sistema possa avere successo senza contenuti forti su cui aggregare quel consenso disponibile al sacrificio e al lavoro di lungo periodo necessari per vincere la partita. Per quell’obiettivo ci vuole qualcosa di più delle ambigue e velleitarie politiche di scouting di nuove personalità, a cui entrambe quelle forze dicono oggi di volersi affidare.