Ultimo Aggiornamento:
24 aprile 2024
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Una democrazia popolare per salvare l’ideale democratico…o no?

Carlo Marsonet * - 28.10.2020
Labate - La virtù democratica

Sergio Labate, docente di filosofia teoretica presso l’Università di Macerata, prende di petto il tema ormai onnipervasivo del populismo in un agile volumetto uscito nella collana “Astrolabio” di “Salerno Editrice”: “La virtù democratica. Un rimedio al populismo” (2019, pp. 104). Come esplicitato fin dal titolo, il volume tenta di elaborare una risposta “militante”, scrive Labate, e non solo formale, alla crisi della democrazia: «solo una democrazia popolare può salvare l’ideale democratico dall’oligarchia o dal populismo». Ma cosa egli intende con “ideale democratico” da rigenerare tramite un’infusione di “democrazia popolare”? La definizione più prossima la rinviene in Gramsci, e più precisamente nel dodicesimo quaderno dal carcere: «la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare governante e che la società lo pone, sia pure astrattamente, nelle condizioni generali per poterlo diventare: la democrazia politica – conclude Gramsci – tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati)».

Nella tesi sostenuta da Labate vi è una buona dose di pedagogia politica: in sostanza, affinché una democrazia funzioni, ogni cittadino dovrebbe cercare di migliorare le proprie qualità o, se si preferisce, le proprie virtù democratiche. Ciascuno dovrebbe essere in grado di ragionare con la propria testa, sostenere un discorso con tesi argomentative salde e fondate ma, al contempo, non sfociare in quel solipsismo narcisista che conduce a una (falsa) autonomia individuale: questa è tra l’altro uno dei tratti che egli riconduce al populismo moderno. Esso è una reiezione viscerale nei confronti delle mediazioni e delle rappresentanze che vengono vissute come radicalmente elitiste. Da ciò deriva, con tutta evidenza, una nostalgia per il decisionismo. Così facendo, però, si viene a rideterminare, sebbene per altre vie, un altro assolutismo: se alla democrazia rappresentativa veniva addebitato un assolutismo delle élite, in cui il popolo non aveva voce in capitolo, con il rifiuto delle mediazioni si creano le condizioni per un assolutismo senza una élite, ma un con un capo (o più capi) che decidono in (presunta) sintonia col popolo.

Il populismo anti-elitista, insomma, da apologia della liberazione del popolo dalle catene dei potenti, finirebbe per rovesciarsi in un’apologia dell’assolutismo del popolo e della sua voce, incarnata dal leader (o dai leader) populisti: la nostalgia per il decisionismo e il disprezzo nei confronti del dialogo e della dimensione conflittuale della democrazia si saldano dando vita a un regime unanimistico-assolutistico. Com’è evidente, sempre sono esistite e sempre esisteranno élite. Tuttavia, ciò che si può fare, scrive Labate, è «cercare una legittimazione non elitistica delle élite», ovvero bisogna cercare di ridurre, come nella citazione gramsciana sopra riportata, la distanza tra governanti e governati.

Per salvare la democrazia urge la riscoperta di quella conflittualità – che è poi la constatazione che il “politeismo dei valori” non può (fortunatamente) essere eliminato, se non facendo ricorso alla violenza – tipica della dimensione liberale di un regime democratico. Ciò non basta, tuttavia, secondo Labate. La virtù è infatti un elemento imprescindibile per rivitalizzare la politica: ma come definirla, o circoscriverla? L’aura moralistica che avvolge la virtù non sembra essere una buona medicina per salvare la democrazia dal populismo. La democrazia, verosimilmente, deve riscoprire una maggior inclusività nei processi decisionali, così come il cittadino non può che cercare di emendare il proprio narcisismo che è un bacino inesauribile di alimentazione del populismo: ma può bastare questo? In un recente volume uscito per “Carocci”, “L’età dei populismi. Un’analisi politica e sociale”, Antonio Masala, ricercatore in filosofia politica presso l’Università di Pisa, ha forse colto il punto essenziale di tutta la questione: «una democrazia che ha promesso troppo e una politica che ha assunto compiti non suoi, fallendo inevitabilmente, sono diventate la linfa del populismo, e della sua promessa che tutto possa dipendere dalla scelta e dalla volontà del popolo. Senza una riflessione sui limiti della politica, e del suo giusto ruolo anche in relazione a quella che deve essere la responsabilità e la libertà dei singoli individui e delle comunità, sembra difficile pensare che il populismo (ideologico) non sia destinato a giocare un ruolo di rilievo nel futuro».

 

 

 

 

*Dottorando in Scienze politiche presso la Luiss Guido Carli di Roma