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27 marzo 2024
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Un nuovo bipolarismo (imperfetto)

Luca Tentoni - 28.01.2017
Merkel e Trump

L'ipotesi che, dopo le prossime elezioni politiche, la destra lepenista di Salvini e Meloni si allei col M5S per formare un governo appare improbabile. Alcune convergenze in materia di politica estera, immigrazione e soprattutto sull'euro spingono alcuni a ritenere che ci sia spazio per una collaborazione. Forse, però, la situazione è diversa. Mentre nel 2013 avevamo visto il bipolarismo della Seconda Repubblica lasciare il posto al tripolarismo (centrodestra, centrosinistra, M5S), oggi appare chiaro che la distinzione principale - almeno quella percepita da parte non irrilevante dell'elettorato - è pro o contro l'euro e l'Unione europea: una sorta di nuovo bipolarismo, molto imperfetto. La contrapposizione destra-sinistra perde forza se abbiamo da un lato un partito che "si chiama fuori" da questa distinzione (il M5S) e dall'altro due blocchi che dovrebbero essere compatti e contrapposti, ma che in realtà non lo sono (nell'ex centrosinistra lo strappo fra il Pd e le forze di sinistra radicale è ben lungi dall'essere ricucito; nel centrodestra le distanze fra Forza Italia e Lega-FdI, a maggior ragione dopo l'elezione di Tajani alla guida dell'Europarlamento e la vittoria di Trump negli USA, si accentuano anzichè ridursi). Oggi il partito di Berlusconi è più vicino al PPE, alla Merkel e persino al Pd di Renzi di quanto lo sia rispetto agli alleati lepenisti italiani. Inoltre, le dinamiche elettorali degli ultimi anni mostrano che, di fronte ad una scelta fra il candidato del Pd e quello del M5S, sovente gli elettori della destra più radicale votano per il secondo. Un conto, tuttavia, è costituire un fronte per uno scopo ben delineato (ancor meglio se è un rassemblement "contro" qualcosa o qualcuno) perchè è più semplice per gli elettori convergere; un altro conto, invece, è costruire insieme un progetto di governo nazionale. Non si vede poi quale possa essere la convenienza dei contraenti del patto fra M5S e destra lepenista. Per i Cinquestelle potrebbe essere vantaggioso se Salvini desse il via libera ad un governo pentastellato senza pretendere di dettare l'agenda. Ma il leader leghista, che vuole la leadership (e la sta perseguendo con decisione in primo luogo nel centrodestra) perchè dovrebbe lasciare in un colpo solo Palazzo Chigi e spazio d'iniziativa programmatica a Grillo? Per contro, perchè il M5S dovrebbe allearsi con forze dichiaratamente di estrema destra, rischiando di finire per essere visto da una parte del proprio elettorato (quella che viene dalla sinistra) come un partito schierato nel campo "sbagliato" e non più votabile? Andare al governo con Salvini è ben diverso dal fare un accordo (più o meno) "tecnico" per entrare in un gruppo del Parlamento Europeo (com'era nel caso della tentata adesione all'Alde). È più probabile che la destra lepenista e il Movimento di Grillo si incontrino votando allo stesso modo su determinati temi, ma ognuno non può allearsi con l'altro senza pagare un dazio elettorale. Del resto, il 15-16% dei voti che oggi si stima possa andare a Lega e FdI è una percentuale molto maggiore rispetto a quella del vecchio Carroccio e della Destra dello scorso decennio: una parte non irrilevante dei voti di Salvini e Meloni viene dall'ex CDL e dal Pdl, cioè anche dalla vecchia Forza Italia (oltre che da AN). Del pari, il M5S nasce per offrire uno spazio politico e di rappresentanza ai delusi del centrosinistra (che vi sono confluiti più numerosi nel periodo fra il 2008 e il 2013) e del centrodestra (fra il 2012 e il 2014). La categoria destra-sinistra è più debole, come si diceva, ma l'orientamento di voto pregresso all'entrata nell'alveo dei "partiti antisistema" conta ancora qualcosa: secondo Demos&Pi (“la Repubblica”, 24 gennaio) su 100 elettori dei Cinquestelle il 30% si sente di sinistra, il 21% di destra, l’8% di centro (il 41% non si colloca) mentre il 73% dei leghisti si sente di destra (centro, 7%, sinistra, 3%, non collocati 17%). La matematica, in politica, non funziona sempre: la somma del 28-30% attribuito dai sondaggi ai Cinquestelle e del 15-16% della destra lepenista non necessariamente può dare per risultato il 43-46%, così come quella dei voti potenziali pro-riforma costituzionale (Pd-centristi), il 4 dicembre, non è stata pari al 47% delle europee 2014 o al 43% delle regionali 2012-'15 ma si è fermata al 40% (oltre il 37% delle politiche 2013). Detto ciò, va pur sempre riconosciuto che l'area dei consensi attorno ai partiti "antieuro" si va accrescendo: salita rapidamente dall'8,3% (solo Lega) delle politiche 2008 al 12,1% (Lega 10,1; Destra 0,9; M5S 1,1%) delle regionali 2008-'11 e al 29-31% di politiche (2013), europee (2014) e regionali (2012-'15), la quota di voti a M5S, Lega e FdI è passata in sette grandi capoluoghi (Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna, Trieste, Cagliari) al 35,6% (comunali 2016: i raffronti precedenti sono il 26,4% delle regionali 2013-'15, il 29% di europee e politiche, il 14,4% delle comunali 2011-'13). Non è affatto improbabile, dunque, che questo fronte eterogeneo sia oggi oltre quota 40%. Se sull'altro versante - altrettanto eterogeneo - potrebbe aver luogo un ben più probabile tentativo postelettorale di "grande coalizione" (Pd-centristi-FI), su quello degli "antisistema" appare - come si accennava, più difficile. Il "mercato elettorale", infatti, riserva a ciascuna componente del blocco "antieuro" aree di maggior forza (il Nord-Est e la Lombardia alla Lega, il Centro-Sud al M5S) dove il partito dominante del "fronte" è solo uno, senza concorrenza o quasi. In Veneto il Carroccio non ha rivali, ma da Roma in giù non può competere col M5S. Questa diversa configurazione geografica dovrebbe favorire l'incontro fra lepenisti e Cinquestelle, ma in realtà lo ostacola. C'è una fetta di elettorato "contendibile" su temi specifici (sull’euro, secondo Demos&Pi, ma non sugli immigrati o sui diritti civili), ma il Carroccio resta pur sempre un partito che tende a privilegiare gli interessi del Nord e il M5S conserva un'impronta più ad ampio spettro (è il classico "partito pigliatutto" di Kirchheimer, pronto ad accogliere elettori di destra come di sinistra, al Nord come al Sud, anche se nel Settentrione è in difficoltà dove la presenza leghista è forte e socialmente strutturata). Ad ogni buon conto, Lega, FdI e M5S si avviano a formare un fronte "di fatto" anche se non un'alleanza politica o di governo, proprio perchè la crisi economica ha spostato il tradizionale confronto elettorale dall'asse destra-sinistra a quello euro-anti euro. In questa nuova contrapposizione si trovano più a disagio i partiti e le correnti "di frontiera": i soggetti politici a sinistra del Pd e i "nordisti" di Forza Italia (i primi, in particolare, sono ancora molto “plurali” e non hanno una posizione ben definita e univocamente critica verso la moneta unica e l'UE). L'esito delle prossime elezioni politiche sarà determinato da un triplo confronto: fra le forze anti-euro e le altre; fra lepenisti e forzisti nel centrodestra; fra destra e M5S nel fronte anti-sistema. Dalle urne (qualunque sia la legge elettorale) scaturirà comunque una legislatura di transizione, con un sistema dei partiti che andrà alla ricerca di un assestamento e di nuovi equilibri - istituzionali ma anche sociali ed economici - oggi non del tutto prevedibili. La Seconda Repubblica è tramontata, ma la Terza è lontana.