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20 aprile 2024
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Soldi e cultura. Perché se l’Italia va a rotoli la colpa è dell’ignoranza al potere.

Marco Mondini * - 12.06.2014
Roberto Zuccato

In un recente intervento alla trasmissione “Otto e Mezzo” il presidente di Confindustria Veneto, Roberto Zuccato, ha dichiarato che affrontare un nuovo rinascimento e uscire da una crisi «non esclusivamente economica» è possibile solo attraverso la cultura. E’ un’opinione di notevole intelligenza, soprattutto perché espressa dal rappresentante di una categoria, quella degli industriali, che non ha mai brillato per fiducia nel sapere e nell’istruzione. Si può sperare che le parole di Zuccato, che è anche presidente della Fondazione Campiello, segnino uno spartiacque tra l’elogio dell’ignoranza, che ha sovente caratterizzato molti suoi colleghi di corporazione, e il riconoscimento che formazione e ricerca sono le basi per la sopravvivenza nell’economia globale?

Forse. Peccato che fino ad oggi i cosiddetti imprenditori del cosiddetto Bel Paese si siano ben guardati dal riconoscere la verità lapalissiana che, in un sistema economico globale, le (in)competenze e le (non)conoscenze da praticoni semianalfabeti del buon (si fa per dire) tempo andato non servono più a molto. Il rapporto Istat 2014 fornisce il ritratto impietoso di una nazione in cui chi gestisce le leve della produzione economica è ampiamente disinteressato alle potenzialità dell’innovazione conseguita attraverso un capitale umano colto e innovatore. Gli investimenti in ricerca e sviluppo nell’insieme delle imprese private italiane rappresenta lo 0,7% del PIL, più o meno la metà della media dell’Unione Europea. Se si considera il solo settore manifatturiero (con l’esclusione di tessile e meccanico), la quota proporzionale di investimento cresce fino al 3%; peccato che i colleghi francesi investano l’8% e i tedeschi fino al 9%. Joseph Schumpeter, uno dei più grandi economisti del Novecento, definì l’imprenditore come l’innovatore per eccellenza, uno spirito libero desideroso di mutare gli equilibri circostanti. A dar retta a questa nobile definizione, viene da pensare che in Italia abbiamo molti bottegai, ma pochi imprenditori.

L’aperto disprezzo per conoscenza e cultura, d’altra parte, caratterizza ambienti economici e politici anche molto diversi tra loro. A urlare in Parlamento contro i «professoroni» (invariabilmente alleati a «burocrati e banchieri») sono stati soprattutto (ma non solo) gli esponenti della Lega Nord, specializzati in un vasto campionario di epici elogi dell’inettitudine. Resta celebre la dichiarazione di voto di un deputato verde-padano che, ardente di furore polemico contro l’allora presidente del consiglio Monti, si premurò di ricordargli che le fabbriche del nord erano state fondate da gente con la terza elementare, e ora venivano mandate in rovina dai laureati. Chissà cosa ne avrebbe pensato Adriano Olivetti. E chissà cosa ne penserebbero tutti quei giovani invitati a «fare» e non «studiare» (perché con la cultura non si mangia, come avrebbe detto l’ex ministro Tremonti),  se scoprissero che studio e sapere sono strumenti indispensabili per concorrere anche sul disastrato mercato del lavoro nazionale. Tra 2008 e 2013, mentre il tasso di disoccupazione nazionale marciava irresistibilmente verso la soglia del 13%, l’equivalente indice per coloro in possesso di una laurea o di un titolo post lauream  passava dal 4,6% al 7,3%: un’enormità comunque, ma pur sempre al di sotto del livello medio di disoccupazione europeo. Concentrandosi sulla fascia critica dei 30/34enni, un segmento generazionale oggi considerato in fase di ingresso nel mondo del lavoro, l’Istat ha rilevato che mentre i laureati e dottorati sono occupati in tre casi su quattro, solo la metà di chi è in possesso di un titolo scolare medio trova un lavoro. Indipendentisti celtici e adepti del culto dell’ignoranza non avranno forse mai letto questi dati; o forse, chissà, non li avranno capiti (perché la cultura non serve, diamine!).   

Sospetto e disprezzo nei confronti di chi sa, va aggiunto, non allignano solo nell’ala destra dello schieramento politico, e nemmeno tra i militanti grillini (che pure del rifiuto dell’intelligenza critica hanno fatto una bandiera). Professoroni e professorini, come è noto, sono un bersaglio privilegiato di offensive mediatiche con ammirevole equità bipartisan. Se nel mondo moderno la conquista di un titolo di studio dà mediamente accesso ad una nuova «nobiltà di stato» (come la definiva il sociologo Pierre Bourdieu), nella vecchia Italia la pretesa di far valere competenze e meriti acquisiti grazie allo studio è percepita ancora (e sempre) come una pericolosa eresia. Inconcepibile che nella patria del familismo qualcuno possa pensare di aspirare ad un lavoro (o ad una qualsiasi posizione, se è per questo) solo grazie ad una buona (o ottima) formazione. Si pensi solo alla guerra di posizione condotta dai sindacati della scuola contro il riconoscimento del titolo di dottorato come via di accesso all’insegnamento. Un ostracismo del tutto privo di senso, se non per il desiderio di impedire l’ingresso di una generazione più qualificata di docenti che rischierebbe di scardinare rendite di posizione e graduatorie faticosamente raggiunte per l’agognata stabilizzazione. Può sembrare paradossale che nel mondo dell’istruzione e della (teorica) trasmissione del sapere si dia il bando a chi sapere e scienza li possiede, e presumibilmente meglio di altri. Ma è una parabola dell’assurdo che aiuta a capire molto della rovina di questo paese.

 

 

* Ricercatore fondazione Bruno Kessler - Professore a contratto Università di Padova.