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20 aprile 2024
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Renzi e il partito

Paolo Pombeni - 10.05.2014
Matteo Renzi

Inutile girarci intorno: ormai una questione chiave di questa fase politica è diventato il rapporto di Renzi col suo partito. Non è tanto una banale questione di strutture “bersaniane” (nei gruppi parlamentari come negli organismi dirigenti) che farebbero fatica ad adattarsi al cambiamento, perché se c’è un mestiere in cui i politici di solito eccellono è quello di riposizionarsi rispetto al cambiamento degli equilibri. La questione è più complicata: si tratta del mutamento complessivo del significato della “forma partito” in generale e del PD in particolare.

Quando Berlusconi si inventò Forza Italia si versarono i tradizionali fiumi di inchiostro per discutere della novità che quella formazione aveva introdotto nella politica italiana: il “partito di plastica”, il partito leaderistico, il partito ammucchiata, e via elencando. La tradizione opposta, che sopravviveva nella fusione delle due grandi militanze strutturali storiche, quelle della DC e del PCI, sembrava capace di sopravvivere e di rilanciare il significato della tradizionale “forma partito”, chiave della democrazia costituzionale post-bellica.

Il fenomeno Renzi ha semplicemente messo a nudo la crisi di quel quadro in rapporto ai tempi in cui viviamo. Tanti avevano già suggerito che nell’età delle comunicazioni di massa esasperate unite al crescente individualismo delle esperienze di vita era difficile immaginare che un passaggio epocale potesse essere affrontato senza uno che si assumesse il compito di interpretare la figura della “guida” (perché questo poi, alla fine, significa “leader” in inglese). Solo che si era pensato, o ci si era illusi, che chi riusciva a ricoprire determinate posizioni (vertice di partito, vertice di governo) potesse assumere automaticamente quel ruolo.

Così non è stato, perché il tema della “narrazione” (come piace dire ai sociologi e politologi), cioè il saper spiegare alla gente non solo perché accadono certe cose, ma anche come se ne può trarre un risultato positivo, è divenuto il metro di misura della capacità di leadership. Ci si è naturalmente accorti che ciò diventava tangenziale con la tradizione della “demagogia” che è anch’essa una forma di guida del popolo basata sulla narrazione, solo che in questo caso la narrazione è ingannevole e non porta alcun risultato positivo. In conseguenza troppi hanno avuto buon gioco a definire a priori qualsiasi tentativo di leadership come uno sporco gioco demagogico da cui ci si doveva affrancare.

Anche Renzi è stato attaccato con queste argomentazioni e con queste argomentazioni si cerca di tenerlo sotto ricatto. L’unico modo che ha per uscire da questo impasse è richiamarsi al secondo contenuto del concetto della leadership: accanto al saper proporre una “narrazione” il leader deve essere capace di riunire intorno ad essa non un consenso generico ed emotivo, ma una condivisione dei fini che raccoglie intorno a lui le energie vitali di una società.

E’ qui che entra in gioco il problema chiave del rapporto di Renzi col PD. Oggi il partito assomiglia più che al canale che raccoglie ed allarga la condivisione di un progetto, il fortino in cui sono sopravvissuti clan di vecchi guerrieri con le loro figliolanze. Il fatto è che Renzi è un fenomeno nuovo, essendo non un “vertice” che è prodotto dai percorsi di selezione e formazione delle strutture e delle elite di un partito, ma uno che si è autoinvestito della funzione di leadership e che se l’è fatta riconoscere non dalla platea strutturata dei “militanti”, ma da una sorta di “appello al popolo” rivolto alla platea dei “simpatizzanti” (le famose “primarie aperte”).

Questo ha sconvolto il panorama tradizionale, perché il “partito” a cui si appella Renzi è di nuovo una specie di “partito pigliatutto”, cioè un movimento di raccolta in cui far convivere le più diverse istanze in nome del cambiamento di registro politico: il ricambio generazionale e la rottamazione dei vari mandarinati (politici e sindacali); le esigenze di ridisegno del sistema di distribuzione dei poteri e le alleanze con elite dirigenti consolidate; una riforma economica abbastanza decisa ed il rispetto realistico dei limiti entro cui è possibile muoversi.

Il PD attuale, soprattutto nella sua classe politica strutturata, è adatto a lavorare per il suo leader che sembra essere in grado di riportarlo alla primazia del consenso elettorale?  Renzi è capace di mettere le sue capacità personali al servizio di un disegno di cambiamento che per riuscire ha bisogno di creare attorno a sé una vera elite di … capaci e meritevoli e non una semplice corte di fedeli al capo?  Queste sono le domande che fotografano i nodi del passaggio attuale.

Le elezioni europee possono misurare, neppure in maniera completamente convincente, il tasso di fiducia di cui gode Renzi-leader, ma non gli daranno quella elite di cui avrebbe bisogno. Dubitiamo che anche un ricorso ad elezioni politiche a breve potrebbe risolvergli quel problema. E’ in un rinnovato rapporto fra “governo” e strutture “vitali” della società e del nostro sistema politico che Renzi deve trovare gli strumenti per consolidare le aspettative che ha suscitato saldandole con una nuova “classe politica” che si identifichi davvero con esse.