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Problemi di sistema

Paolo Pombeni - 27.05.2020
Zaia e Bonaccini

La crisi innescata dalla pandemia mette in luce tutte le fragilità del nostro sistema istituzionale, non certo ignote, perché se ne discute da decenni, ma che adesso hanno acquisito spessore e drammaticità anche agli occhi dei non addetti ai lavori.

Quella su cui è si è maggiormente discusso riguarda il nostro pseudo-federalismo alla carbonara, anzi alla polentona visto che ha all’origine la voglia di secessione della Lega Nord. Oggi si discute di nuovo della necessità di regolamentare i confini fra i poteri dello stato e quelli delle regioni, essendoci accorti che il problema nasce oltre che da norme fatte male, dal venir meno di quel senso di comune appartenenza al sistema nazionale che in passato inseriva le classi dirigenti in uno stesso contesto. Era un fattore che risaliva alla dimensione “nazionale” di quasi tutti i partiti: i loro membri si sentivano parte di uno stesso contesto, sia che sedessero nel parlamento, sia che fossero parte di assemblee legislative regionali o comunali. Parlando ovviamente in generale, erano quei centri che garantivano ciò che si potrebbe chiamare la circolazione delle elite politiche in un quadro nazionale almeno come riferimento.

Non è più così: sono fiorite anche nell’immaginario collettivo le “piccole patrie”. Lo si era già visto, tanto per fare un esempio, quando ai tempi del gasdotto che veniva dall’Est il governatore Emiliano aveva considerato le spiagge della sua regione roba dei pugliesi e non degli italiani. Lo si vede anche da un diverso punto di vista quando i governatori Bonaccini e Zaia, lanciati dalla gestione della pandemia ai vertici del gradimento, devono affrettarsi a smentire ambizioni di leadership nazionali per non disturbare le nomenklature dei rispettivi partiti.

Accanto a questo, altri problemi bussano alla porta. Non si può dimenticare la questione spinosa dei poteri delle burocrazie, che vengono presentati come i responsabili dei blocchi al funzionamento rapido degli interventi messi in campo per contrastare la crisi economica. Non si può dimenticare che anche qui ci scontriamo con una querelle di lunga data. Il terrore della discrezionalità della decisione politica è una costante nella nostra storia, perché si pensa, non senza qualche fondato motivo, che essa si trasformerebbe in una forma di incontrollabile dispotismo dei governanti. Per evitarlo, si è imbrigliata ogni decisione in una rete di disposizioni legislative che avrebbero dovuto rendere “oggettiva” qualsiasi scelta del potere politico e che avrebbe dato la possibilità di perseguirne tutte le deviazioni, sicuramente frutto, secondo questo modo di ragionare, di corruttela e di nepotismi.

Il risultato è stato una giungla di norme in cui muoversi diventa difficilissimo, con l’aggiunta che essendo queste state pensate come strumento per valutare “giuridicamente” qualsiasi comportamento si è consegnato un enorme potere di intervento ad ogni tipo di magistratura, civile, penale, amministrativa e contabile (perché noi, quanto a magistrature, non ci facciamo mancare nulla). Il risultato è che, al contrario dell’aurea massima del sistema costituzionale per cui con la divisione “il potere limita il potere”, abbiamo creato la follia di un potere che può tenere sotto scacco gli altri.

Si è così alimentato un cortocircuito per cui il potere giudiziario è divenuto una casta. Niente affatto quel “potere neutro” che risolve i conflitti che insorgono fra gli altri poteri secondo la teoria che si fa risalire a Montesquieu, ma un centro di presenza attiva nella lotta politica, almeno nei suoi vertici che si sono attribuiti questo compito (perché non è affatto così per tutti i magistrati). Il recente scandalo uscito dalla pubblicazione delle intercettazioni dell’ex presidente dell’ANM Luigi Palamara non getta certo una luce favorevole su un certo mondo. Se i suoi difensori insistono che quanto emerso non configura reati penali, noi ci permettiamo di dire che pone un interrogativo inquietante sul modo di intendere la deontologia professionale da parte di ambienti di vertice di un sistema delicato come quello giudiziario.

Abbiamo citato solo alcuni casi eclatanti della crisi di credibilità e di autorevolezza in cui sta cadendo il nostro sistema istituzionale. Si nota con rammarico che la politica, tutto sommato, in questo contesto si trova a suo agio. Un sistema in cui tutti hanno scheletri negli armadi permette a ciascuno di fare il censore degli altri e a tutti di alzare una gran nebbia sull’inadeguatezza, almeno al momento, delle forze politiche di varare quella grande riforma che il nostro paese insegue senza successo da almeno quarant’anni.

Eppure è la riforma complessiva del sistema ciò che più serve in questo momento, sia per interrompere la guerriglia di tutti contro tutti che mina la forza di qualsiasi intervento nelle crisi in corso, sia per acquisire quella credibilità e autorevolezza di cui abbiamo assolutamente bisogno per poter avere dall’Unione Europea il sostegno indispensabile per rimettere in sesto il nostro sistema economico e sociale.

Riempirsi la bocca delle solite frasi fatte sul noi ce la faremo da soli serve solo ad alimentare un inganno che ben presto verrà alla luce. Ciò di cui questo paese ha bisogno non è un governo di unità nazionale messo in piedi a qualche verso, ma della rifondazione di una solidarietà nazionale fra tutte le forze veramente disponibili a lavorare seriamente e duramente per garantirci un futuro.