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Petrolio e politica: alla fine del primo boom energetico del XXI secolo

Massimiliano Trentin * - 23.12.2014
Christine Lagarde

Dalla metà dello scorso giugno, il prezzo del barile di petrolio è calato di quasi la metà: secondo i dati forniti dal più grande cartello dei Paesi produttori, l’OPEC, siamo passati da 107 a poco meno di 62US$ nel giro di sei mesi. L’OPEC non esaurisce certamente tutte le riserve e la produzione totale di petrolio, né tantomeno quelle dei combustibili fossili. E tuttavia, le sue scelte sono molto importanti perché tra i suoi membri troviamo ancora i grandi produttori, come i più grandi detentori di riserve ad oggi conosciute ed utilizzabili.

Le spiegazioni per questo calo drastico, anzi possiamo parlare di vero e proprio crollo, sono essenzialmente di due tipi: quella strettamente “economica” basata sulla razionalità, sulla funzione di utilità; e quella geopolitica che considera come preponderanti la lotta di potere in atto a livello mondiale. Nelle società industriali e dei consumi di massa, le relazioni tra produttori e consumatori di energia non hanno mai seguito la razionalità del supposto homo economicus, per cui è difficile parlare di “mercato libero” del petrolio o dell’energia come se queste fossero due merci come le altre. Allo stesso tempo, politiche energetiche che non hanno considerato la propria sostenibilità finanziaria hanno mostrato presto i loro limiti. E’ dunque assai probabile che anche oggi assistiamo ad un mix di fattori economici e politici, la cui rilevanza cambia in base alla prospettiva dei soggetti coinvolti.

I tassi di crescita dell’economia mondiale hanno rallentato negli ultimi mesi a causa della perdurante stagnazione o recessione della zona Euro, e del rallentamento delle economie asiatiche o latino-americane. Solo gli USA registrano dati positivi, sebbene scontino anch’essi la stagnazione dei salari. Tutto questo si è tramutato in un rallentamento delle importazioni di petrolio nei grandi Paesi industriali. Alla diminuzione relativa dei consumi è corrisposto un aumento della produzione di “nuovi” soggetti che, grazie agli alti prezzi del greggio dell’ultimo decennio, hanno investito massicciamente in nuove tecnologie (fracking) che, a loro volta, hanno permesso lo sfruttamento di nuove fonti di combustibili fossili (quali scisti bituminosi) In particolare, gli Stati Uniti d’America e le sue “major” sono tornati ad essere oggi tra i più grandi produttori di energia al mondo, rivaleggiando con Arabia Saudita e Russia: energia per il consumo domestico e per l’esportazione, in Europa anzitutto.

Si è venuta così a creare una situazione in cui alcuni dei grandi produttori dell’OPEC quali Arabia Saudita e le monarchie del Gulf Cooperation Council (GCC) rischiano seriamente di perdere le loro quote di mercato in Nord America, in Europa o in Asia a favore di produttori non-OPEC. Le forniture di gas messe a disposizione oggi dalla Russia e domani dagli USA rappresentano delle minacce reali e concrete per le petro-monarchie del Golfo. E non solo per loro: l’Algeria, tradizionale fornitore di petrolio per gli USA, ha perso nel 2014 il 75 per cento del proprio mercato statunitense, e i GCC hanno visto diminuire le proprie quote ai livelli del 1996. Sbandierato da tempo, l’affrancamento energetico di Washington dal Medio Oriente ha iniziato a farsi sentire nel 2014, e i Paesi del Golfo non hanno tardato a reagire.

Da anni, i rappresentanti dei Paesi produttori e gli analisti concordano in larga misura che il prezzo di equilibrio del barile di greggio si attesti attorno a 80US$: tale prezzo permetterebbe ai produttori di sostenere i rispettivi bilanci statali e i nuovi investimenti così come ai Paesi industriali consumatori di proseguire nella crescita, o nella ripresa. Tuttavia, si stima anche che tale prezzo mantenga la reddittività dei “nuovi” combustibili fossili nordamericani ed Europei. Alla riunione dell’OPEC a Vienna, il 27 novembre, l’Arabia Saudita e i GCC in coda hanno deciso di contrastare i “nuovi” produttori di energia mettendoli fuori mercato: ossia, rendere assolutamente non competitivi nel prezzo il petrolio e il gas prodotti in Nord America, in Russia, in Europa o in America Latina. In effetti, i prezzi al di sotto dei 70US$ colpiscono duramente qualsiasi prodotto, impresa o Paese i cui costi di produzione non siano minimi.

Gli unici Paesi che possono permettersi di sostenere tale prezzi per mesi o anche per un anno intero sono i Paesi del GCC, Arabia Saudita in testa: Paesi dalle riserve e capacità produttive ancora enormi, Paesi dalle popolazioni piuttosto contenute e che hanno accumulato riserve finanziarie immense nell’ultimo decennio grazie ad un’oculata politica di spesa, investimento e risparmio. Con 800-900US$ miliardi di riserve in valuta estera, l'Arabia Saudita può permettersi anche un anno di prezzi bassi, sebbene il proprio budget sia calcolato ancora sul prezzo di 104US$ al barile. Gli altri OPEC sia attestano, invece su livelli più alti: 184US$ al barile per la Libia, 131 per Iran e Algeria, 123 per Nigeria e 118 per Venezuela, 104 per Arabia Saudita appunto, 101US$ per Iraq. Unica eccezione sono i piccoli GCC: 81 UAE, 78 Kuwait e 77 US$ al barile per il Qatar. Altri produttori, come Iran, Venezuela, Algeria e la stessa Russia devono invece fare i conti con vincoli di spesa importanti per le proprie popolazioni e status internazionale. Altri ancora, come l’Iraq e la Libia, devono produrre e vendere più possibile per riuscire a sopravvivere, semplicemente. Dunque, la contromisura finora adottata è tagliata su misura per alcuni Paesi produttori, e non per altri.

Qui, intervengono allora le considerazioni di ordine politico, che danno nuovo senso ai processi in corso. Se il greggio del Golfo è minacciato dal fracking e dai derivati degli scisti bituminosi del Nord America, allora dovremo pensare ad un conflitto tra Arabia Saudita e Stati Uniti d’America. Negli ultimi anni, Washington e Ryad sono entrati in collisione per la gestione delle rivolte arabe, o meglio della controrivoluzione da mettere in atto: si pensi all’Egitto, alla Siria e allo stesso Iraq dell’invasione anglo-statunitense o dello Stato Islamico. Tuttavia, Washington rimane il principale garante della sicurezza militare delle monarchie arabe del Golfo e non vi è alcun segno che ciò possa cambiare nel breve e medio periodo. In cambio, Ryad e i GCC costituiscono ancora uno dei pilastri finanziari sui cui si regge il valore mondiale del dollaro statunitense, nonché un mercato di importazione fondamentale per i produttori di armi del Nord America. Sebbene dunque la “special relationship” tra USA e Golfo non sia più così scontata come in passato ed elementi di divergenza e diffidenza reciproca continuino a sussistere, è molto probabile che la scelta di Ryad di non tagliare la propria produzione di greggio e di lasciare cadere i prezzi mondiali sia stata valutata anche in base alla sostenibilità dell’alleato statunitense. Certamente, la reddittività dei grandi investimenti del governo USA e delle major a stelle e strisce in Canada o, non a caso, in Polonia e Ucraina non potrà che risentirne negativamente: prima del calo di giugno, già si parlava dell'insostenibilità degli investimenti nei giacimenti energetici nell'Artico o in altre zone degli Stati Uniti e del Canada, così come dell'opportunità di nuove acquisizioni e fusioni tra le multinazionali energetiche: il calo dei prezzi e dei profitti non potrà che accelerare la costruzione di nuove economie di scala che permettano la sopravvivenza delle imprese più grandi e strutturate. Del resto, non è affatto scontata la messa fuori mercato delle nuove fonti energetiche: infatti, si ritiene che anche tra i 60 e i 65US$ al barile lo sfruttamento del greggio e del gas del Nord America possano essere comunque redditizi grazie alla diminuzione assai veloce dei costi delle tecnologie utilizzate.

Coloro che, invece, nel breve ne perderanno maggiormente non possono definirsi proprio come alleati di Washington o di Ryad: Russia, Iran, Venezuela, Algeria, Brasile o la stessa Argentina dei Kirchner, secondo detentore delle riserve mondiali di shale gas che ha ripreso il controllo statale sul settore estromettendo le major statunitensi tra il 2013 e il 2014. Sono tutti Paesi che difficilmente possono permettersi prezzi del greggio al di sotto dei 70US$ senza dover tagliare drasticamente la spesa pubblica, e sono Paesi oggetto di sanzioni da parte di Washington: si pensi all’Iran e più recentemente al Venezuela e alla Russia.

Al momento è difficile dire se Ryad e Washington abbiano concordato il corso del “mercato libero” dell’energia, e forse è anche inutile in questo momento. E’ molto probabile, invece, che la decisione saudita e dei GCC in sede OPEC sia stata presa valutando attentamente gli interessi di medio periodo degli Stati Uniti: se non dell’Amministrazione Obama, quantomeno dei loro alleati tradizionali al Congresso e al Senato, che peraltro sono anche i più tenaci sostenitori di una politica aggressiva nei confronti dei propri rivali, o non allineati, internazionali.

Infine, resta da vedere come reagiranno sia i Paesi maggiormente colpiti dal crollo del greggio sia i Paesi industriali consumatori. Immediatamente, i guru del neoliberismo hanno elogiato il calo dei prezzi per costringere i Paesi produttori a smantellare i sussidi ai redditi e al consumo ancora esistenti, riprendendo un tema su cui si erano spesi molto prima dello scoppio delle rivolte arabe. Il direttore del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ritiene al netto “positivo” il calo dei prezzi del greggio per dare fiato alle economie avanzate, sorvolando forse sul fatto che storicamente il crollo dei prezzi dell’energia è stato elemento costituente delle grandi recessioni e deflazioni mondiali. E poi, nell’autunno del 2004 il Fondo Monetario ritenne che al rialzo dei prezzi del greggio avrebbe dovuto corrispondere l’eliminazione delle “rigidità” del mercato del lavoro, in primis in Europa, per contenere l’inflazione. Eliminato oggi il greggio come fattore di inflazione, ci si può domandare se il Fondo Monetario valuterà opportuno far leva sui salari e sul lavoro come elementi di crescita, o se la deflazione dei fattori produttivi (qui salari ed energia) sia dopo tutto qualcosa con cui il capitalismo odierno possa convivere senza problemi: tanto prima o poi ripartirà un nuovo ciclo, come sperano i dirigenti sauditi. In attesa delle “magnifiche sorti progressive” della post-modernità e di qualche nuova equazione di equilibrio macroeconomico, siamo probabilmente di fronte alla fine del primo boom energetico del XXI secolo (2002-2014): vedremo chi sarà in grado di sopravvivere alla disciplina del mercato, o meglio alla prova di forza imposta dai produttori più forti.

 

 

 

* Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna