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L'incerto destino della Lega

Luca Tentoni - 28.11.2020
Giorgia Meloni

In politica restare fermi non è sempre una buona scelta, ma muoversi troppo può essere dannoso. È il caso di Matteo Salvini, che, costruite le sue fortune sull'opposizione ai governi di centrosinistra e conquistata nel 2018 la leadership nel centrodestra (quando qualcuno disse: chi prende più voti diventa capo della coalizione) arrivò tuttavia, nel volgere di poche settimane dalle politiche a dar vita ad un governo col M5s (con FI e FdI relegati all'opposizione: Berlusconi, con involontario umorismo, disse più o meno che al leader del Carroccio i suoi alleati avevano concesso questo "giro di valzer"). Tempo un anno - fatto di scontri con l'UE e culminato con la vittoria alle europee (34%) - e si arrivò alla svolta del Papeete, quando il vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno decise di auto espellere la Lega dalla maggioranza gialloverde, certo di ottenere elezioni nelle quali il centrodestra a trazione salviniana avrebbe stravinto. Le cose non andarono proprio come desiderato, anche perché - frattanto - un altro esperto di movimentismo - l'ex segretario del Pd Renzi - aveva favorito a tutti i costi l'incontro fra i Democratici e i Pentastellati. Il governo giallorosa privò - da un lato - Salvini della gestione dell'immigrazione, ma - dall'altro - gli permise di muoversi liberamente da capo dell'opposizione, pensando che Fratelli d'Italia sarebbe rimasto schiacciato a destra e che Forza Italia sarebbe stata assorbita facilmente dal Carroccio. Tuttavia, i rapporti di forza fra i tre soci della ex Cdl, che nel 2018 vedevano la Lega possedere il 47% dei voti della coalizione e nel 2019 il 69%, cambiarono rapidamente. Mentre Berlusconi si riprendeva gradualmente la scena, forte dell'ancoraggio al Partito popolare europeo e ad un clima mutato (con una maggior disponibilità dell'UE a concedere prestiti, fondi e sforamenti di bilancio anche all'Italia) soprattutto dopo lo scoppio della pandemia (che aveva prodotto anche una sorta di "congelamento" dello scontro politico nazionale) e mentre la Meloni proseguiva nella sua lenta ma inesorabile marcia di consolidamento del suo partito neomissino (arrivando alla guida dei Conservatori europei), la Lega perse rapidamente consensi. Quel 34% dei voti ottenuto dalla Lega nel 2019 è oggi 24%, mentre il 6% di FdI è diventato 16%; non solo, ma i sondaggi attribuiscono al centrodestra il 46% dei suffragi (quindi, su 100 voti, solo 52 sono leghisti, poco più che nel 2018, in proporzione). Ridimensionato nel consenso popolare (+7% sul 2018 ma -10% sul 2019), emarginato da una parte a destra (dove, in Europa, è solo con la Le Pen e altrove non ha più neanche Trump, del quale è rimasto l'unico difensore anche dopo i riconteggi del voto americano), Salvini vede che il Cavaliere (secondo alcuni per l'affare Vivendi-Mediaset, ma bisognerebbe forse guardare oltre, alle manovre per partecipare alla scelta del nuovo Capo dello Stato, nel 2022 e ad un eventuale governo Draghi di solidarietà nazionale, nella seconda metà del 2021) dialoga con i giallorosa e offre loro qualche sponda. Così, prima sfila a Forza Italia tre parlamentari, poi, non attendendosi la dura replica di Berlusconi, capisce che col 40% di Lega e FdI le prossime elezioni non si possono vincere e va a Canossa dal leader forzista, offrendogli però un dono che in realtà è un cavallo di Troia: la federazione del centrodestra. Il fondatore di Forza Italia sa bene che rifare la "svolta del predellino" vorrebbe dire far confluire in un partito unico o - peggio - in gruppi parlamentari comuni i tre soggetti politici dell'opposizione ex Cdl, cioè fare della Meloni una specie di nuovo Fini (infatti la leader di FdI non ci sta) e disintegrare gli azzurri (i quali sono già ora divisi fra filo centristi e filoleghisti). Ovviamente, perciò, Berlusconi non ha affatto aderito all'invito della Lega. In questo gioco ci sono in palio anche le candidature a sindaco nelle maggiori città d'Italia: Roma, Milano, Torino e Napoli (nessuna delle quali amministrata oggi dalla destra) voteranno in primavera, quindi il Cavaliere aspetta da Salvini qualcosa di più concreto prima di "perdonarlo" per la sottrazione parlamentare; intanto, però, tramite Letta dialoga con la maggioranza, in una partita nella quale FI finge di non accordarsi e il M5s finge di non sapere nulla di nulla, ognuno per salvare le apparenze. Sia la Meloni, sia Berlusconi sono in una buona posizione: occupano uno spazio dove hanno possibilità di azione (rispettivamente la destra sovranista nazionale e il centro moderato). Salvini, invece, è in mezzo agli altri due, in cerca d'autore in Europa e - visti i sondaggi e i no alla federazione - anche in Italia. La Lega cerca una sponda in una Confindustria ormai strutturalmente all'opposizione dei giallorosa, ma Salvini non è il Berlusconi del 2001, che poteva permettersi di dire agli industriali: "il mio programma è il vostro". In più, la roccaforte lombarda scricchiola (c'è aria di rimpasto, in Regione) e quella veneta ormai è un feudo di Zaia (quasi completamente desalvinizzato). Qualcuno (Giorgetti) suggerisce prudenza al leader leghista, ma se per i Cinquestelle la ricerca di un approdo europeo (secondo alcuni nel gruppo di Macron, dopo il fugace appoggio grillino ai gilet gialli!) è un esercizio complesso, per il Carroccio agganciarsi al Ppe è improbabile e aderire ai Conservatori guidati dalla Meloni vorrebbe dire sottomettersi a FdI. Intanto, i sondaggi confermano il 40% ai sovranisti, ma assottigliano il margine della Lega sul partito neomissino, col rischio che alle prossime elezioni - se sono i voti a fare il capo del centrodestra - sia Giorgia Meloni la leader della nuova CDL. Se Salvini non trova una soluzione e un posizionamento fruttuoso (che non consiste certo nel ripetere la vecchia litania dei condoni e nel dire no ad ogni offerta di dialogo, anche se promossa dal Quirinale) lo spazio della Lega è destinato a ridursi, chiudendo una stagione che sembrava trionfale e che invece sta diventando deludente.