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Le sfumature del bipolarismo, cinque anni dopo

Luca Tentoni - 05.12.2020
Amministrative 2021

Questo è l'ultimo appuntamento con la rubrica "L'analisi del sabato". Il primo risale al 18 aprile 2015, in un'altra era politica che sembra ormai lontanissima. Da questa rubrica (e da altri scritti per Mentepolitica, in una collaborazione che ho iniziato nel luglio del 2014 e non finirà con l'appuntamento del sabato) sono nati ben sei Quaderni che la nostra rivista ha pubblicato: "Maggio 2015: elezioni regionali e sistema politico italiano"; "Brevi cenni sulla Repubblica"; "Le elezioni comunali del 2016 nei capoluoghi di regione"; La lunga transizione"; " Le elezioni comunali del 2017"; "Le stagioni dell'incertezza". Dopo esserci occupati dell'evoluzione politica, istituzionale ed elettorale italiana e delle democrazie occidentali, torniamo all'oggetto del nostro primo appuntamento del sabato: "Centro-periferia: un doppio sistema partitico?". Nel 2015 eravamo agli esordi di un processo che avrebbe caratterizzato il voto in Italia negli anni successivi e che forse non si è ancora concluso. Analizzando il voto politico del 2013 e quello delle elezioni regionali svolte fra il 2012 e il 2014 (in vista di quelle, allora imminenti, della primavera 2015), si notava l'esistenza di "tre elezioni di tipo diverso: per la Camera (nazionali, mobilitanti), per le Europee (nazionali, poco mobilitanti, caratterizzate da una fedeltà di partito più "leggera") e per le Regioni (locali, basate su dinamiche spesso riconducibili a persone, situazioni, tradizioni)”. Si osservava, in quella sede, che mentre nel voto politico i due poli maggiori (centrodestra e centrosinistra; il centro era calcolato a parte, così come il M5s) erano scesi dal 91% delle regionali 2008-'10 (97,6% con i centristi) al 62,1% delle politiche 2013 (72,8% con i centristi) e al 74,1% delle europee 2014 (79% con i centristi) si era arrivati, già nel turno regionale 2012-'14 - allora incompleto - ad un magro 76% (in realtà, col voto regionale del 2015, si sarebbe registrata una percentuale del 78,2% senza i centristi e dell'83,2% con i minori moderati). In sintesi, si tracciava un primo bilancio di un nuovo fenomeno: "abbiamo l'impressione fondata di una dinamica che per Montecitorio (e per un'elezione "da libera uscita" come quella europea) è tripolare e multipartitica, mentre a livello locale è ugualmente multipartitica ma ancora abbastanza bipolare" osservando che alle regionali del 2015 erano favoriti tutti i candidati di centrosinistra o di centrodestra, ma non i Cinquestelle. Avevamo, dunque, nelle regioni a statuto ordinario, il seguente quadro riguardante i due maggiori poli (che ora possiamo integrare con i risultati dell'ultimo quinquennio): Politiche, 62,1% (2013; 72,8% con i centristi) e 73,9% (2018; 72,9% con i centristi); Europee, 74,1% (2014; 79%) e 81,8% (2019); Regionali, 78,2% (2013-'15; 83,2%) e 84,5% (2018-'20; 86,3%). In pratica, il quadro delle elezioni parlamentari non è favorevole al bipolarismo (media: 68%, che diventa 72,85% con i centristi), quello delle europee lo è di più (media: 77,95%, che è 80,4% con i centristi), ma l'elezione che è sostanzialmente sempre stata bipolare è quella per le regioni ordinarie (media: 81,35%, che diventa 84,85% con i centristi). Ovviamente, in tutto questo il ruolo del M5s - un partito eminentemente vocato per le elezioni politiche e non radicato a livello locale - è determinante. Così, dalla comparsa dei pentastellati sulla scena politica abbiamo assistito costantemente a due tipi di competizioni: una bipolare (regionale) e una tripolare (politica), con una variante "quasi bipolare" rappresentata dalle europee. Per concentrarci sul voto regionale, che è quello a noi più prossimo (settembre 2020; sull'argomento rimando al mio recentissimo volume "Le elezioni regionali in Italia", Il Mulino), è importante notare che l'ultimo appuntamento con le urne è stato forse determinante per chiudere definitivamente la stagione della crisi del centrodestra (che aveva provocato copiose defezioni di delusi verso il M5s). Se nel 2010, proprio alle regionali, la Cdl aveva il 47,2% dei voti, oggi ha il 45,8% (diversamente distribuito, certo: a vantaggio di Lega e FdI, a svantaggio di Pdl-FI), passando attraverso il 29,5% del 2013 (pol.), il 27% del 2014 (eur.), il 35,7% del 2013-'15 (reg.), il 37,5% del 2018 (pol.) e il 50,5% del 2019 (eur.). Lo stesso recupero non è avvenuto nel centrosinistra, che partiva nel 2008-'10 dal 43,8% ed è oggi ancora al 38,7%, passando per il 32,6% del 2013 (pol.), l'occasionale 47,1% del 2014 (eur.), il 42,5% del 2013'-15 (reg.), il 28,4% del 2018 (pol.) e il 31,3% del 2019 (eur.). In altre parole, se il bipolarismo non è tornato completamente ai livelli di dieci anni fa è "colpa" del centrosinistra e della persistenza di un elettorato (forse proveniente dall'Italia dei valori e dalla sinistra radicale) che oggi resta nel M5s (salvo rifugiarsi nell'astensionismo o sostenere candidati di centrosinistra alle regionali, in taluni casi). È infine interessante verificare due dati: uno relativo al Pd e alle liste più prossime, di centrosinistra e del presidente e un altro inerente al M5s. Pd e alleati più stretti avevano il 30,3% dei voti alle regionali del 2008-'10 (regioni ordinarie), poi il 26,7% nel 2013 (pol.), il 41,5% nel 2014 (eur.), il 38,1% nel 2013-'15 (reg.), il 20,7% nel 2018 (pol.), il 25,5% nel 2019 (eur.) e il 32,2% nel 2020. Mentre Sel e le altre forze di sinistra spesso alleate del Pd hanno avuto oscillazioni di voto fra il 4% scarso e il 5%, la variazione più significativa è avvenuta - non considerando le europee - a scapito del Pd e dei suoi alleati minori, segno che se nel polo di centrodestra la riorganizzazione dei rapporti di forza sembra aver favorito il recupero dei voti perché c'erano almeno due soggetti trainanti - FI-Pdl e Lega - nel centrosinistra tutto il peso è sempre stato sulla capacità attrattiva dei Democratici e sulle loro fortune. Ai tempi di Cdl e Unione la prima era rappresentata dalla triade FI-AN-Lega, mentre la seconda vedeva da una parte l'Ulivo e dall'altra una vasta galassia di sinistra (con poche formazioni centriste come l'Udeur). Oggi il centrodestra è "diversamente plurale" rispetto al passato (ma sempre incarnato da tre leader, come allora) mentre il centrosinistra è il Pd e poco altro. Nello spazio che si è aperto fra i delusi di centrosinistra si è inserito, già nel 2010, il M5s, che prima ha raccolto voti da una sola parte, poi anche a destra (fra il 2012 e il 2018) e ora è un eterogeneo soggetto che ospita in gran parte elettori che non si sentono schierati e che forse - in percentuale non trascurabile - un tempo sono stati di sinistra (giustizialista, radicale - non in senso pannelliano - ed ecologista) più che di centrosinistra, ma che oggi non sembrano disposti a tornare sui propri passi e riabbracciare l'identità di un tempo, a meno che i Cinquestelle non scelgano (forse rischiando un suicidio elettorale) di diventare un partito (quale, poi? Un gruppo "rosso-verde" neo-giustizialista?). La correlazione fra tipo di competizione e risultati elettorali del M5s è molto chiara e robusta: nelle quindici regioni ordinarie, una media del 28,2% dei consensi alle politiche, del 18,6% alle europee e del 13,8% alle regionali. In sintesi, l'entità del voto pentastellato è tale da configurare una competizione tripolare (almeno fino al 2018, ma forse non in futuro) alle politiche, fungendo però da "disturbo" alle europee e - in misura minore - anche alle regionali (dove, per poco, il centrosinistra non ha perso la Puglia, l'Emilia e la Toscana), a danno del centrosinistra (l'afflusso occasionale di alcuni votanti grillini a favore degli aspiranti presidenti del Pd non ha però impedito che competizioni apparentemente più abbordabili si trasformassero in fatiche di Sisifo per il partito di Zingaretti). Dieci anni dopo la comparsa elettorale del M5s, dunque, il sistema politico bipolare non si è ancora ricomposto, anche se a livello regionale non c'è mai stata gara che abbia visto vincitore un pentastellato, mentre sul piano del voto politico nazionale abbiamo - secondo i sondaggi - un blocco del 46% erede della Cdl al quale si contrappongono il Pd (intorno al 20%) con un gruppo di potenziali alleati moderati (circa 6%) e di sinistra (3-4%). Resta, insomma, un bipolarismo claudicante, proprio per il ruolo che ancora gioca il M5s, a meno che - in vista delle prossime elezioni legislative (2022-'23) o subito dopo - Di Maio e soci, col loro 16%, non vogliano diventare la "seconda gamba dell'Unione" e rifare un'alleanza che però sarebbe adesso molto più improbabile, rissosa e sfilacciata di quella del 2006-2008 (e senza un Prodi). Le amministrative del 2021 ci daranno qualche indicazione in merito: si vota a Roma, Milano, Napoli, Torino e Bologna (nessuna delle quali amministrata dalla destra), quindi in località dove Pd e Cinquestelle possono solo decidere se collaborare (al primo turno o al secondo) od ostacolarsi a vicenda.