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L'analisi del sabato. Amarcord. Il voto nelle sette regioni: 1968-1992

Luca Tentoni * - 30.05.2015
Corriere - Prima Repubblica italiana

Un campione rappresentativo?

 

Concludendo il nostro viaggio nelle sette regioni chiamate al voto, torniamo al passato. Abbiamo già fatto qualche cenno ai risultati elettorali relativi agli anni '70 e, soprattutto, all'ultima fase della "Prima Repubblica" (1987-1992). Stavolta cerchiamo di tracciare un quadro di come votavano le sette regioni in un periodo che va dalle elezioni politiche del 1968 (immediatamente successive alla crisi del primo centro-sinistra organico) fino a quelle del 1992 (fine del pentapartito) includendo tutte le consultazioni amministrative fra il 1970 (prima elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario) e il 1990. Anticipiamo che - com'è accaduto anche recentemente - il dato complessivo delle percentuali di voto nelle sette regioni si avvicinava anche negli anni '68-'92 a quello nazionale. Anzi, considerando le "famiglie politiche", la differenza era quasi trascurabile: i partiti di sinistra (che qui abbiamo raggruppato in quella che un tempo si definiva "grande sinistra": Psi, Psdi, Radicali, Verdi, Pci, Psiup, Dp-Pdup) sono sempre stati leggermente sovrarappresentati (fra le sette regioni ce ne sono tre "rosse") di circa lo 0,5% (fra il -0,2% delle politiche 1976 e il +1,3% delle politiche 1992). Il centro (Dc, Pri, Pli) ha invece ottenuto nel complesso risultati lievemente minori rispetto alla media nazionale, nell'ordine però dello 0,2% (fra il -1% del '68 e il +1,7% delle regionali '90): fino al 1983, tuttavia, il rendimento del centro nelle sette regioni è stato mediamente inferiore di circa lo 0,5%, mentre dalle politiche del 1987 è diventato migliore in confronto al dato nazionale, soprattutto per la maggiore tenuta della Dc nelle regioni meridionali (Campania, Puglia). Detto ciò, vale una regola che abbiamo visto affermarsi anche nella "Seconda Repubblica", nel periodo in cui il sistema dei partiti si era nuovamente strutturato: a modesti passaggi di voti (che nella Prima repubblica erano davvero impercettibili) fra le due maggiori famiglie politiche (in parte anche fra il centro e una terza piccola area, la destra, di solito sovrarappresentata dello 0,3-0,4% grazie al Sud) faceva invece riscontro un rendimento diverso da partito a partito. All'interno della sinistra, a parità di risultato nazionale, nelle sette regioni il Pci era costantemente sovrarappresentato (fra lo 0,7% e il 2% in più, grazie alle "zone rosse"); il Psdi non presentava scostamenti significativi, mentre i socialisti, sottorappresentati negli anni '70, divennero sovrarappresentati nell'era craxiana (soprattutto nel Mezzogiorno). Questo allineamento quasi perfetto con la media nazionale è, nel periodo '68-'92, dovuto alla combinazione di tendenze regionali molto marcate ma di segno opposto: l'"armonia" è dunque apparente, frutto dell'unione del rosso di tre regioni (e "mezza": le Marche) e del bianco di altre due (Veneto, Puglia; la Campania è un caso a parte). In certi casi alcuni partiti giungeranno a percentuali così alte da farci scoprire che ognuno ha proprie precise roccaforti territoriali: non solo Dc e Pci, ma anche, in periodi e circostanze diverse, Psi, Msi e (in parte) il Pri. In primo luogo esamineremo le dinamiche storiche all'interno di ciascuna famiglia politica, poi osserveremo il voto nei capoluoghi di regione (da sempre più a sinistra, ma soprattutto estremamente premiante per laici e Msi); infine, faremo un bilancio sul “colore” passato e presente di ciascuna delle sette regioni.

 

Due famiglie politiche (e mezza)

 

Se osserviamo il comportamento elettorale della Seconda Repubblica, vediamo due poli che ottengono più o meno stabilmente, fra il 1996 e il 2010, circa il 90% dei voti (centrodestra e centrosinistra) più uno centrale, minore (composto da partiti come l'Udc che fino al 2006 sono nella CDL e da altri, come l'Udeur, che fanno parte del centrosinistra). Anche negli anni della Prima Repubblica - qui, in particolare, nel periodo 1968-1992 - c'erano due grandi famiglie politiche (la sinistra e il centro) e una più piccola (la destra). Mentre nella Seconda Repubblica il polo più piccolo poteva ricevere voti e cederne agli altri due, nella Prima il flusso bidirezionale riguardava solo gli scambi col polo centrista. Di solito, i voti in più al Msi provenivano da "libere uscite" dalla Dc. Come nella Seconda Repubblica (escluso il 2013, quando ha prevalso Scelta Civica) la famiglia più piccola era spesso "monogenitoriale" (avendo l'Udc come partito prevalente) così accadeva nella Prima col Msi (che per parte degli anni '70 si è trovato addirittura da solo a rappresentare l'intera area). A destra, prima dell'ondata leghista del '90-'92, il Msi conquistava fra il 77 e il 100% dei voti: la concorrenza del Pdium (22,7% nel '68) si concluse con la confluenza nel Msi-Dn (1972). La scissione di Democrazia Nazionale ebbe invece poco peso (10,6% nel 1979) e breve durata; successivamente la Liga Veneta (dal 4,8% del 1983 al 10,8% del 1987) cominciò a farsi spazio (poco su scala nazionale ma molto in Veneto) e, nel '90-'92, la Lega Lombarda-Lega Nord prese il sopravvento: su 100 voti di destra, il Carroccio ne raccolse 53,3 alle regionali e 61,7 alle politiche. Una tendenza che però, in un sistema diverso e con una destra ben più ampia (quella della Seconda Repubblica) vedrà la Lega sistematicamente superata da Alleanza nazionale. La destra oscilla, fra il 1963 e il 1987, fra il 6 e il 7% (l’eccezione è l’8,7% del 1972, che però è molto vicino all’8-9,5% conseguito alle elezioni del 1946, 1948 e 1953 dai vari partiti dell’area, ben lontano dal successo del 1953 – 12,7% - dovuto alla minor concentrazione di voti sulla Dc, alla polemica sulla “legge truffa” e sulla valanga di voti monarchici nel Mezzogiorno).

Più interessante, invece, la dinamica del "grande centro". Nelle dodici consultazioni elettorali considerate, questa famiglia politica vive tre fasi: la prima, fra il '68 e il '72, nella quale Dc, Pri, Pli e Svp) ottengono il 46-47% dei voti. E’ una fase, in realtà, che durava dal voto per la Costituente (1946): con l’eccezione del 1948 (l’anno della mobilitazione degasperiana e dello scontro fra Dc e Fronte popolare social-comunista, quando i centristi raggiunsero il 51,5% - 48,5% la Dc - e tutti i partiti di sinistra si fermarono, nel complesso al 38,3%) il “grande centro” aveva sempre raccolto fra il 45,2% (1953) e il 47,8% (1958). Nelle elezioni seguenti al referendum sul divorzio (le regionali, che in gran parte si svolsero nel '75, mentre nelle regioni a statuto speciale ebbero luogo fra il '73 e il '76) il blocco centrista entra in una seconda fase, scendendo al 42% e assestandosi fra il 41 e il 44% fino a tutto il 1987, per ripiegare di nuovo - nella terza fase, finale - al 40% nella tornata elettorale regionale del 1988-'91 e al 37,5% delle politiche 1992 (in questi ultimi due casi, a fronte di una massiccia avanzata leghista). In tutto il periodo 1968-1992 la Dc rappresenta fra il 79% (1983, 1992) e l'89% dell'elettorato (1976): il picco positivo coincide con le "elezioni del mancato sorpasso" e della mobilitazione che evita ai democristiani di essere superati dal Pci, mentre i due negativi corrispondono alla perdita di Palazzo Chigi da parte dei democristiani (1983: nello stesso periodo in cui De Mita riforma, a caro prezzo, il suo partito) e all'offensiva leghista al Nord (1992). In questa famiglia politica il Pli passa da un ruolo di primo "partner" (1968-1972: 8,5-12,3%) alla quasi irrilevanza degli anni fra il '73 e l'82, riprendendosi nel 1983 e nel 1992 ma senza raggiungere più il peso del periodo '68-'72. I repubblicani, invece, conquistano lentamente terreno fra il '68 e il '75, per assestarsi intorno al 7% dell'area centrista fino alle regionali del 1980, poi salgono al 12,3% alle politiche del 1983 per ripiegare al 9-10% degli anni successivi e tornare all'11,7% proprio nell'ultima elezione della Prima Repubblica (1992). Il raggruppamento centrista è dunque caratterizzato da un forte partito predominante e due che si danno il cambio per il secondo posto (a grandissima distanza dalla Dc).

La "famiglia politica" della sinistra è invece molto numerosa, con un "genitore" più grande (il Pci ottiene fra il '68 e il 1985 fra il 56 e il 69% dei voti dell'intera area), uno più piccolo (il Psi, intorno al 20-25% fino al 1983, poi al 28% nel 1987 e al 31% nel '90-'92, quando sta quasi per raggiungere il Pci - e in alcuni regioni lo supera, appena prima di Tangentopoli) e tanti gruppi minori: il Psdi, che nei primi anni '70 rappresenta ancora il 10-13% della sinistra ma che precipita al 6-9% negli anni seguenti; l'effimero e declinante Psiup (1968-'72), la sinistra di Dp, Pdup e Manifesto (mai oltre il 4% dell'intera area) e i nuovi soggetti politici (i radicali, capaci di exploit nel 1979 e nel 1987 ma anche di risultati meno brillanti e i Verdi, che giungono a rappresentare fra il 1987 e il '92 fra il 5 e il 9% dell'elettorato di sinistra). La sinistra vive una prima fase fra il 1946 e il 1958, nella quale si attesta sul 41-42% dei voti (con l’eccezione del 38,3% del 1948: un risultato particolare, anche considerando che quel 7,1% dei socialdemocratici era un voto espresso in funzione anti social-comunista); poi il Pci inizia a crescere e si apre una seconda fase (1963-1972: sinistra fra il 44,5% e il 46,8% dei voti) alla quale segue, con le regionali del ’75 e le politiche del ’76, la terza (sinistra fra il 48 e il 51% fino a comprendere le regionali del periodo 1988-’91) seguita dal 43,9% del 1992.

Una notazione va fatta riguardo al “non voto”: a livello nazionale, nel 1946 (Costituente) gli astenuti, le schede bianche e quelle nulle costituiscono il 17,8% dell’elettorato. Una quota che scenderà intorno al 10% fra il ’48 e il ’68 aumentando solo per le regionali (anni ’70: 11-12%) e confermandosi per le politiche fino al ’76 (9,2%). Il “non voto” sale intorno al 15% alle regionali fra il ’78 e l’86 e al 16-17% alle politiche 1983-’87, fino al 19,5% della tornata regionale 1988-’91 e al 17,4% delle politiche 1992. In pratica, nel 1992 si torna al “non voto” della Costituente, anche se i quotidiani parlano già nel ’79 di grave disaffezione, rimpiangendo il 10% del trentennio di elezioni politiche fra il ’48 e il ’76.

Nelle nostre sette regioni interessate dalle elezioni del 31 maggio 2015 i rapporti di forza interni alle due maggiori famiglie politiche sono diversi (non troppo, però) da quelli nazionali. La Dc, fra il '68 e le regionali '90, ha sempre almeno l'86% dei voti centristi (ma il 91,3% nel '76 e il 90,5% nel '79). Una media dell'87,3% contro l'83,8% nazionale e il 79,2% dei sette capoluoghi di regione. Ne fanno le spese il Pri (7,2% contro l'8,1% nazionale e il 10,8% dei capoluoghi) e il Pli (5,5% contro 6,7% e 9,9%). A sinistra, i rapporti di forza mutano poco: il Pci ha il 58,9% di voti medi della sua “famiglia politica” (meglio del 57% nazionale ma peggio del 59,8% dei capoluoghi regionali) mentre il Psi ha il 25,1% (in linea col 25,3% nazionale, ma meno del 22,9% delle sette "capitali" regionali). Nessuna variazione di rilievo per Psdi, radicali, verdi, Psiup ed estrema sinistra.

A livello di percentuali sui voti validi, invece, l'evoluzione delle sette regioni segue quella nazionale, con la Dc che negli anni fra il '68 e il '79 è ancora intorno al 40% (con l'eccezione delle regionali '75, quando il voto dei giovani - più numeroso grazie alla diminuzione della maggiore età da 21 a 18 anni - fa avvicinare il Pci, col 32,8%, a 4,1 punti dalla Dc scesa al 36,9%: un divario che nel complesso delle 15 regioni ordinarie scende invece all'1,8%). Al ripiegamento democristiano dei primi anni '80 fanno seguito un periodo di nuova stabilità al 36,4-36,7% (1985-1990) e il crollo al 31,7% nel 1992 (un livello, però, di due punti superiore a quello nazionale). Il Pri, invece, nonostante buoni risultati in alcune zone delle Marche (Ancona, Macerata) resta costantemente sotto il dato nazionale come anche il Pli. A destra, il Msi raccoglie risultati superiori alla media solo in Campania e Puglia dove, in particolare nei capoluoghi e nel 1972, arriva a insidiare le posizioni di Psi e Pci. A sinistra, invece, il Pci giunge nel '76 al 35,3% (a livello nazionale è al 34,4%) mantenendo percentuali più elevate della media grazie alle "roccaforti rosse". Il Psi, a sua volta, riesce a sfondare in queste regioni solo alle regionali del '90, col Pci in crisi e il "vento del Sud" che in Campania e Puglia premia il partito di Craxi portandolo fino al 16% complessivo dei voti (un punto in più rispetto alla media nazionale).

 

I capoluoghi: un po' roccaforti rosse, un po' "laboratori politici"

 

Come abbiamo visto in un intervento precedente per Mentepolitica, le città capoluogo di regione sono state sempre, nella Seconda Repubblica, roccaforti del centrosinistra: negli ultimi dieci anni, se non si considerano le politiche 2013, i partiti di sinistra e centrosinistra hanno complessivamente ottenuto nei sette capoluoghi una percentuale di voto variabile fra il 50% (2008) e il 55,6% (2005), molto più alta (fra il 5 e il 9%) della media regionale. Ebbene, durante il periodo 1968-1992 la sinistra otteneva nelle "capitali regionali" una percentuale fra il 47,1% del 1972 e il 56,6% del 1987, superiore in media del 4,1% rispetto al dato regionale. Nella Prima Repubblica, insomma, le città maggiori votavano - sia pure con le dovute distinzioni, come vedremo - all'incirca come oggi, mentre la sinistra è adesso ben più debole, nei centri minori, rispetto ad allora. La Dc era costantemente sottorappresentata (il miglior risultato fu il 30,9% del 1979) e superata dal Pci (nel complesso dei sette capoluoghi) già alle regionali del 1970 (30,6% contro 30,2%) e per un ventennio (1990: Dc 26,8%, Pci 26,5%). Il 20 giugno 1976, mentre a livello nazionale la Dc resisteva al tentativo di soprasso comunista e si attestava al 38,7% contro il 34,4% del Pci, nelle sette regioni lo scarto era leggermente maggiore (Dc 39,9%, Pci 35,3%) ma nei capoluoghi di regione i comunisti (che già nel 1975 avevano sfiorato i 10 punti di vantaggio sui democristiani) erano al primo posto col 39,5% contro il 31,9%. Un'altra Italia, insomma, ieri come oggi. Ma si trova molto di più, esaminando i dati delle elezioni regionali e politiche nei grandi centri fra il 1968 e il 1992. Detto del risultato generalmente deludente della Dc (in media il 9% in meno rispetto al dato regionale e il 7,5% sotto quello nazionale) e del Pci (+2,9% sulla media regionale e +4% su quella nazionale) si conferma quanto avevamo in accennato in un'altra occasione circa i partiti socialisti (Psi, Psdi e Psiup ottengono percentuali omogenee nei tre ambiti: capoluoghi, regione, nazione) e la sinistra estrema (anch'essa in linea con i dati degli altri livelli territoriali). Un discorso diverso, invece, riguarda i partiti che si sono dimostrati in grado di intercettare il voto urbano molto di più di quello "periferico": Pri, Pli, Radicali, Verdi, Msi. Il Pri ottiene in media lo 0,7% in più nei sette grandi centri rispetto al dato regionale (+0,4% su quello nazionale), il Pli il +1,2% (+0,7% su naz.), i Radicali +1,2% (+0,8 su naz.), i Verdi +1,2% su reg. e naz., il Msi +2,6% (+2,5% su naz.). Se nel complesso delle 7 regioni i partiti sempre presenti alle elezioni nel periodo 1968-1992 (Pri, Pli, Msi) hanno avuto una media di voto globale del 12,3% nazionale e dell'11,7% regionale, nei capoluoghi la percentuale è salita al 16,1%. Aggiungendo gli ottimi risultati "metropolitani" di radicali e verdi il quadro è ben delineato: nei grandi centri sono più forti il Pci, i partiti laici (non socialisti) e il Msi. Per contro, negli altri comuni domina la Dc (fra il 36% e il 42% nel periodo 1968-'87) mentre il Pci è poco oltre il dato nazionale. Inoltre, la sinistra prevale sul centro a metà degli anni '70, tuttavia mai in misura superiore al 7% (nei capoluoghi di regione, invece, la differenza si avverte già dal '68 e varia fra un vantaggio minimo dell'8,5% del '68 e il massimo del 21,4% registrato nel 1983). Non tutti i capoluoghi di regione, però, presentano le stesse dinamiche. Se è vero che Dc e Pci sono rispettivamente sotto e sovrarappresentati (tranne rare eccezioni), è anche vero che:

1) a Genova, il Psi ottiene risultati migliori rispetto al resto della regione; il Pli va nettamente meglio in città solo nel '68 e nel '92, il Pri solo nel '92, i radicali nel '79 e nel 1987; il Msi ottiene un buon dato esclusivamente nel '72 (7,2% contro 6,1% regionale) ma non nelle altre elezioni;

2) a Venezia, il Psi va costantemente meglio rispetto alla media regionale (fra l'1,8% e il 2,8% in più) così come il Pri, il Pli, i Radicali, i Verdi e il Msi. Nel '92, quando la Lega dilaga al Nord, a Venezia si attesta al 12,8% contro il 17,3% regionale (a Genova, invece, è al 14% contro il 14,3%);

3) a Firenze, fino al '79, la Dc va meglio rispetto al resto della regione, mentre il Pci ha almeno un 6-7% in meno (1968-'87); in città Pri, Pli, Radicali, Verdi e Msi (anche il Psi, tranne una piccola parentesi negli anni '70) ottengono risultati superiori al dato regionale;

4) a Perugia, il risultato del Pci è lievemente inferiore alla media regionale, al contrario di quello del Pli, del Pri (dal '79 in poi), del Psi (ma solo nel 1987 e nel 1992, perchè prima i socialisti avevano ottenuto in città percentuali più basse che negli altri comuni), di Radicali e Verdi nonchè (in misura un po' più marcata nel '72 e nel 1983) del Msi;

5) nella città di Ancona spicca sempre il dato del Pri (insieme a Macerata, è una roccaforte repubblicana): sempre fra il 6% e l'8% dei voti contro il 3,2-5,5% regionale; buoni risultati anche per Pli, Radicali, Verdi e Psi;

6) Napoli è un vero proprio "laboratorio" in una regione che è già caratterizzata da dinamiche particolari (consistenti flussi di voto, nessuna lunga prevalenza del centro o della sinistra). Nel 1968 il Msi è il terzo partito (10,3%), ma nel 1972, per poco (26,3% contro il 27,8% del Pci e il 28,4% della Dc) non diventa il secondo o il primo, mentre - dopo una fase fra il 14 e il 15% - torna al 20% in città nel 1983, a pochi passi dal secondo posto della Dc (21,8%). Il Movimento sociale di Almirante è stato, nella Prima Repubblica, un partito nazionale che però ha rappresentato – per una fetta dell’elettorato Dc centromeridionale – il corrispettivo del Carroccio al Nord nella Seconda: un soggetto politico insediato particolarmnte in certe zone del Paese, in grado di ottenere consensi numericamente significativi, soprattutto da Roma in giù. Alla fine degli anni Ottanta, inoltre, mentre il Msi declina il Psi guadagna una percentuale di voti ben superiore rispetto a quella nazionale: a livello regionale il partito di Craxi passa dal 7,8% del 1976 al 9,4% del '79, al 12,9% del 1983, al 14,9% del 1987 per concludere la progressione (e sorpassare il Pds) nel 1992, col 19,6% (il Pds è al 12,3% contro il 21% ottenuto dal Pci nel 1987); in città, il sorpasso socialista non arriva mai (1992: Psi 16%, Pds 16,6%) ma il Psi guadagna l'11,2% fra il '76 e il '92, in linea col +11,8% regionale dello stesso periodo; così, a Napoli conoscono le loro fortune Msi e Psi, ma anche, sia pure in una breve stagione, il Pci, che supera il 40% dei voti nel '76, distanziando la Dc di 11 lunghezze e mantenendo il primato (sia pure con percentuali intorno al 30,7-31,5%) alle politiche del 1983 e del 1987;

7) a Bari la situazione è simile a quella di Napoli, con la differenza che la Dc riesce a mantenere il primato sul Pci in tutte le elezioni politiche del periodo 1968-'92; i socialisti ottengono risultati migliori in città, che diventano notevoli fra il 1983 e il '92 (18,4-20,7%) e permettono al partito di superare il Pci già nel 1987. Il Msi, invece, vive il suo momento migliore nel '72, quando in regione è al 12,5% ma in città sale al 18,8% (solo lo 0,7% in meno del Pci, allora secondo partito di Bari).

 

Le sette regioni, ieri e oggi: un bilancio

 

Sebbene il confronto fra "famiglie politiche" di Prima e Seconda Repubblica sia talvolta improprio (la sinistra pre-1992 e la successiva; il centro di ieri e il centrodestra del periodo '94-2010), ci sono però delle costanti, che dimostrano tendenze capaci di "sopravvivere" ad un elettorato profondamente cambiato. Nel 1968, i più giovani chiamati alle urne erano del 1947 (la maggiore età era a 21 anni) cioè nati pochi mesi dopo la Repubblica; i più anziani avevano avuto i loro natali negli ultimi due decenni dell'Ottocento. Nel '92, i più giovani al voto erano nati nel 1974, i più anziani all'inizio del Novecento. Nel periodo 2008-2014, che abbiamo preso in considerazione, le "matricole" sono nate dopo l'inizio della Seconda Repubblica e i più anziani ricordano il fascismo per averlo vissuto da bambini o poco più. Eppure, quasi tutti i "colori" delle regioni restano immutati: il bianco del Veneto resta - con proporzioni pressochè uguali - nel centrodestra della Seconda Repubblica. Così è anche per il rosso di Toscana, Umbria e Marche (dal '75, in questo caso), mentre la Liguria, come abbiamo detto, è diventata un po' più "rosa". La Campania è ancora la regione "grigia" (o arcobaleno, a seconda dei punti di vista) dove si sperimentano le maggioranze più svariate e si premiano partiti diversi in differenti stagioni. La Puglia è passata dal bianco al grigio. La sostanza, tuttavia, cambia poco, anche col mutare degli elettori. Le urne del 31 maggio proveranno a dirci (probabilmente in modo confuso, data la varietà di candidati e coalizioni) se sta nascendo una Terza Repubblica dei partiti con caratteristiche diverse - anche territoriali - rispetto al recente e al remoto passato.

 

 

 

 

* Analista politico e studioso di sistemi elettorali