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La vendetta di Erdogan.

Massimiliano Trentin * - 01.08.2015
PKK

Più passano i giorni, più la strategia del Presidente turco Erdogan diventa chiara. Ufficialmente la Turchia è entrata in guerra contro l'organizzazione dello Stato islamico e il Pkk curdo. In realtà, la vera guerra di Erdogan è contro le formazioni politiche curde in Turchia e nella vicina Siria.

In base agli eventi sul campo, Ankara ha accettato di partecipare alla Coalizione internazionale contro l'organizzazione dello Stato islamico. Dopo gli scontri, peraltro limitati e sporadici, tra le autorità turche e miliziani dell'autonominato califfo al Baghdadi, Ankara ha concesso il permesso a Washington di utilizzare la grande base aeronautica di Incirlik per effettuare i bombardamenti in Iraq e in Siria. Data la vicinanza geografica, questo permette di risparmiare tempo, e dunque carburante e denaro. Inoltre, la Nato spera che Ankara metta fine al flusso continuo di miliziani, armi, petrolio e merci di contrabbando tra la Turchia e i territori del supposto califfato nero. Nei fatti, dopo l'accordo del 7 luglio, le principali azioni militari contro i seguaci di al Baghdadi sono state condotte dagli alleati occidentali della Nato. Si sono registrati scontri armati nelle zone di confine tra Turchia e Siria, con l'esercito turco che ha bombardato alcune posizioni islamiste e, guarda caso, anche posizioni dell'YPG curdo-siriano. La proposta di creare una zona-cuscinetto "ISIS-free" è una formula tanto vaga quanto utile dal punto di vista diplomatico: risponde alla vecchia e pericolosa richiesta di Ankara di costituire nel nord della Siria una zona in cui le forze armate siriane non possano intervenire, e in cui parte del milione e mezzo di rifugiati siriani in Turchia possano essere re-dislocati. Questa volta non si parla di al Assad ma di al Baghdadi, rispondendo così al cambiamento di priorità degli USA e della Nato, ma non di Erdogan. Un compromesso diplomatico la cui realizzazione sarà tutta da verificare. Di certo, un intervento dell'esercito turco in territorio siriano è facile che aumenti la conflittualità invece di diminuirla perché Damasco, Teheran, Mosca come anche i curdi siriani non accetteranno facilmente questo intervento turco oltreconfine.

Tuttavia, la vera guerra di Erdogan non è tanto contro i salafiti-jihadisti dello Stato islamico. La vera guerra di Erdogan è contro i curdi. La sconfitta politica alle elezioni scorse non è piaciuta al Presidente turco, che invece sperava di "sbancare" ancora una volta, e modificare la Costituzione a propria immagine e somiglianza. In particolare, la vittoria del partito democratico e progressista DHP, a base curda, ha scompaginato i piani di Erdogan, e mostrato come nel Paese esista un fetta importate di popolazione disposta a dare fiducia ad un progetto che si pone agli antipodi di quello islamista-liberista di Erdogan. L'attentato a Suruç, contro gli attivisti che portavano solidarietà alla resistenza curda di Kobane, e le manifestazioni contro un governo giustamente accusato di connivenza con i salafiti-jihadisti hanno accelerato un processo già in corso: l'alleanza tra l'AKP, dominato ormai solo da Erdogan, e le forze nazionaliste conservatrici turche, da sempre forti nei ranghi delle forze armate e dei servizi di sicurezza. In particolare negli ultimi tre decenni queste ultime hanno legittimato le pratiche illegali del cosiddetto "Stato profondo" in base alla lotta senza quartiere sia contro la guerriglia del PKK di Ocalan sia contro le formazioni politiche democratiche curde o di sinistra. L'utilizzo di movimenti radicali di destra, tanto laici quanto islamisti, è rientrato da sempre nella prassi politica di queste forze.

Dopo Suruç, l'uccisione di due guardie di frontiera turche ad opera del PKK ha dato il via alla guerra di Erdogan. Attaccando il PKK nel nord dell'Iraq, nel Sud-est della Turchia così come i curdi in Siria, Erdogan e il suo delfino, Primo ministro, Davutoglu, sperano di rinsaldare le fila dei propri elettori conservatori e mettere all'angolo i partiti democratici, pro-curdi o comunque favorevoli al processo di pace tra Ankara e il PKK. Il 28 luglio, il Presidente Erdogan è uscito allo scoperto auspicando la revoca dell'immunità per i parlamentari del DHP in quanto conniventi con i "terroristi" del PKK: attaccare Ocalan, dunque, per attaccare il DHP.

Il governo di Ankara è andato alla ricerca del sostegno della Nato e, come in altre occasioni, ha invocato l'art.4 dello Statuto per convocare gli alleati e discutere della "reale" minaccia alla sua integrità territoriale. Il comunicato finale ha sì confermato il sostegno della Nato alla Turchia e l'appoggio alla guerra contro l'organizzazione dello Stato islamico. Tuttavia, tra le righe, e nel linguaggio della diplomazia, non ha appoggiato l'equiparazione tra Stato islamico, il PKK e affini sostenuta da Ankara. Questo è il senso politico degli appelli alla "proporzionalità" degli interventi e al proseguimento del "dialogo" con i curdi.

Il vero problema è che piano piano si sta costruendo un contesto politico regionale e internazionale che potrebbe mettere fine alla tragica guerra in Siria. Nel suo discorso in televisione, il Presidente Bashar al Assad ha riconosciuto i limiti militari del regime e la necessità di abbandonare alcune zone del Paese per rafforzare quelle strategiche. Tradotto sul campo, Damasco accetta di lavorare con le milizie dell'YPG contro l'ISIS nel Nord-est della Jazira e negli altri "cantoni" della Rojava curdo-araba. I curdi-siriani al momento sono il collegamento tra Damasco e Washington nel nord della Siria, e hanno ottenuto anche il benestare di Teheran tramite la mediazione dei curdi-iracheni di Jalal Talabani. I ribelli siriani hanno rallentato l'offensiva a Der'a, nel sud della Siria, su pressione degli occidentali e dei Paesi arabi del Golfo per evitare che il collasso totale di Damasco avantaggi lo Stato islamico, posizionato nel deserto ad ovest. Hizb'allah sembra concentrare le proprie azioni sempre più in territorio libanese, ai confini con la Siria, e non più in tutta la Siria come nell'ultimo anno e mezzo.

In generale, stiamo assistendo alle prime ricadute dell'accordo sul nucleare tra USA e Iran: ossia, alla verifica delle possibilità di collaborazione tra i diversi Paesi implicati nella guerra in Siria. Il processo di verifica e costruzione della fiducia sarà lungo, e molto dipende dalla capacità di ognuno di influenzare le forze siriane impegnate sul campo. Di certo, la guerra di Erdogan contro i curdi indebolisce quella che ad oggi è l'unica forza locale che ha saputo tenere testa militarmente e politicamente all'organizzazione dello Stato islamico. Come era prevedibile, il "sultano" di Ankara tenta il tutto per tutto pur di realizzare i suoi obiettivi, mantenendo alto il fuoco del conflitto nei Paesi vicini arabi, e rischiando di mettere a fuoco anche il proprio Paese.

 

 

 

 

* Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Bologna