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17 aprile 2024
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L’ « INFODEMIA » al tempo della PANDEMIA

Massimo Nava * - 20.05.2020
Plaquenil

Se dico che dopo la pioggia tornerà il sole, esprimo una speranza e una banalità. Ma se scrivo “la quiete dopo la tempesta” (copyright Leopardi) sarà considerato uno dei grandi poeti italiani. Se affermo che il Plaquenil è un ottimo farmaco per i reumatismi, entro nella categoria dei medici di fiducia. Se lo annuncio come il rimedio più efficace contro il Covid 19, divento una star più famosa di Bocelli e le farmacie si svuotano di Plaquenil.

Viviamo uno momento di smarrimento. L’epidemia ha messo in discussione  un’idea di continuità illimitata del progresso sociale, scientifico e biologico, esteso ad aree sempre più ampie dell’umanità. Siamo costretti a riflettere sulle nostre fragilità di esseri umani, di habitat, della scienza e della medicina.

In questi mesi di privazione delle nostre libertà e angoscia economica, scienza, politica e giornalismo si confondono come in una fiction di Netflix : episodio dopo episodio si susseguono colpi di scena e nuovi protagonisti, si ingarbugliano le trame, si lascia il pubblico con il fiato sospeso per la stagione successiva. I media e i social network riportano migliaia di notizie (e “scoperte”) in cui è impossibile orientarsi e si finisce per prestare fede a ciò che ci fa più piacere leggere. Intellettuali e commentatori, sulla base della propria cerchia amicale o di followers, pretendono di raccontarci l’evoluzione della società, dei comportamenti, delle relazioni, della nostra condizione psicologica e affettiva, mentre basterebbe rendersi conto che i “social” ci hanno già costretto da anni alla distanza sociale, senza aspettare il Covid 19. Chattare, sinonimo di vivere, dialogare, lavorare, amare?

Scienza e politica, attraverso i media, comunicano un messaggio presentato come originale e nuovo, salvo contraddire il precedente. Lo scienziato ottiene visibilità in quanto comunica con autorevolezza autoreferenziata la validità di studi e analisi. Il politico ha consenso quanto più motiva le decisioni appoggiandosi al parere degli « esperti » , i quali - come i tecnici prestati alla politica scaduta di prestigio - risultano più credibili. Il populista, che è la variante impazzita della politica, riceve applausi quanto più scalda gli animi con argomenti uguali e contrari, evocando complotti americani o cinesi, utilità o inefficacia dei vaccini, speculazioni dell’industria farmaceutica o rimedi omeopatici e invocando alternativamente sacrifici necessari o difesa di diritti individuali e collettivi compressi dall’emergenza.

La semplificazione aumenta confusione e smarrimento. Di conseguenza, la sensibilità popolare richiama epidemie dei secoli precedenti : inseguiamo dogmi e rivelazioni salvifiche, vediamo untori e organizziamo caccie agli untori. Il risultato potrebbe essere il tutto indistinto, la confusione sovrana, con il risultato che ognuno potrebbe decidere alla fine di comportarsi a modo suo, secondo buon senso. E non è detto che sia la soluzione peggiore. Proviamo a chiederci perché epidemie del passato, anche recente, come la febbre di Hong Kong alla fine degli anni Sessanta - un milione di morti, migliaia in Europa - non abbia provocato contromisure eccezionali e nessuno se ne ricorda più.

Un approccio intellettualmente onesto consiglierebbe di dire con chiarezza che un’epidemia è un fenomeno intrinsecamente eterogeneo. La gravità e la contagiosità del virus variano a seconda dei luoghi, delle condizioni climatiche, dello stato di salute dell’individuo, delle classi di età, della situazione socio economica, delle strutture sanitarie, delle misure di contenimento e, in ultima analisi, dell’efficacia di un farmaco (da sperimentare) e di un vaccino (da scoprire).

Una politica autorevole dovrebbe regolarsi di conseguenza, non delegando la responsabilità della decisione alla scienza (talvolta usata come alibi) né lasciandosi condizionare dalla cacofonia di regioni, amministrazioni locali, associazioni, categorie economiche divise fra il partito della libera uscita  e il partito del lockdown, poli opposti di un conflitto fra interessi individuali e  salute della collettività che soltanto la buona politica può risolvere.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito « infodemia », la pandemia di informazioni e fake news a proposito del Covid 19. Fra febbraio e maggio sono stati pubblicati 3700 studi, frutto di analisi da laboratorio e ricerche, in particolare sull’efficacia di farmaci in circolazione, come prodotti per l’ipertensione arteriosa e reumatismi, e anticipazioni sull’arrivo « imminente » del vaccino. È il paradosso della scienza, materia cui attribuiamo rassicuranti successi, dimenticando che avanza per approssimazioni e sperimentazioni e che ci racconta ciò che non sappiamo e che dobbiamo ancora scoprire. 

All’« INFODEMIA » scientifica si sovrappone quella giornalistica, basata sulla montagna di dati sull’epidemia nei vari Paesi.

Se, ad esempio, noto che in Italia i decessi di individui con meno di 50 anni sono stati l’1,1 per cento, 312 in tutto e che, fra le 66 vittime con meno di 40 anni, due terzi presentavano gravi patologie oltre al coronavirus, potrei concludere che la pericolosità dell’epidemia - in Italia come in tutto il mondo - riguardi la fascia di popolazione più anziana, soprattutto gli ultraottantenni.

Nelle fasce di età inferiori ai sessant’anni, il virus ha fatto molte meno vittime che negli incidenti stradali di una settimana in Europa. Con il senno di poi, si potrebbe sostenere che una maggiore prevenzione, un maggior numero di centri di terapia intensiva e una più responsabile gestione delle case di riposo avrebbero fortemente ridotto la strage di anziani, non solo in Italia.

Queste considerazioni non consentono però di affermare che le misure di contenimento sono state eccessive. È stato calcolato che senza le misure di contenimento sociale,  messo in atto in modo differenziato da Paese a Paese, il numero di vittime sarebbe stato assolutamente superiore. In Francia, ad esempio, si parla di 60/70 mila morti in più. Cifre che potrebbero essere anche più alte se si riuscisse a calcolare con sufficiente esattezza il numero degli asintomatici.

L’andamento dell’epidemia dimostra inoltre diffusione e pericolosità ondivaga (sia pure sulla base di dati approssimativi) da Paese a Paese, in relazione alle condizioni ambientali dell’area colpita, in particolare le aree urbane. Il numero di vittime negli Usa, ad esempio, appare un’enormità, ma percentualmente è inferiore al numero di vittime in diversi Paesi europei. In Africa, il numero di decessi è assolutamente inferiore rispetto alle previsioni di una catastrofe umanitaria in considerazione delle condizioni sanitarie e sociali. Uno studio ci dice che il 78 per cento dei decessi per coronavirus si è verificato nelle 66 regioni più inquinate d’Europa, con le italiane Lombardia e Veneto in testa alla triste classifica.

Se è vero che le misure di contenimento hanno evitato decine di migliaia di morti, è anche vero che il sovraccarico delle strutture sanitarie, l’emergenza epidemiologica e la comprensibile paura diffusasi nella popolazione hanno ridotto il numero di visite, trattamenti, operazioni, diagnosi preventive e ospedalizzazioni per molte altre patologie, in particolare le cure oncologiche, geriatriche, cardiologiche. I ritardi o l’assenza di diagnosi farebbero aumentare  la mortalità del 10/15 per cento anche nei Paesi più sviluppati. L’Unicef ha lanciato un nuovo allarme : oltre cento milioni dei bambini in 37 Paesi - sempre a causa del lockdown - non hanno fatto la vaccinazione per il morbillo. Un ritardo o un assenza le cui conseguenze si faranno sentire nel tempo.

L’« INFODEMIA » non dà certezze nemmeno a proposito delle conseguenze socio economiche del lockdown. Risuona la domanda ingannatrice : « meglio morire di virus o di fame »?

In Occidente, il crollo del Pil, dell’occupazione, della produzione industriale e il fallimento di attività commerciali e terziarie spingerà milioni di individui sotto la soglia di povertà, con conseguenze drammatiche anche sulla tenuta sociale dei Paesi più colpiti. In Italia, si allungano le file al Banco dei Pegni e alle mense della Caritas.

La FAO ha calcolato i milioni di individui che soffriranno la fame nel 2020 in rapporto alla riduzione della crescita globale, fra i 14 e gli 80 milioni, a seconda di una recessione fra il 2 e il 10 per cento.

Mentre aumentano disoccupazione e povertà, le Borse hanno recuperato le perdite, con ampi margini di guadagno sulle nuove prospettive derivate dall’emergenza : industria sanitaria, high-tech, Smart working, servizi alla persona e persino ecologia.

La conclusione ideologica sarebbe che la finanza è sempre più sconnessa dall’economia reale. Ma il lockdown sta provocando anche una rivoluzione dei comportamenti, dei consumi, di modelli produttivi e di sviluppo, di cui ancora non possiamo immaginare le conseguenze per gli anni futuri. E il lockdown ha ridotto incidenti sul lavoro, incidenti stradali, vittime di rapine e droga. Come dopo guerre e rivoluzioni, ci saranno vincitori e vinti, eroi e sciacalli, nuove ricchezze e nuove povertà. Il tempo - non l’INFODEMIA di oggi - ci darà qualche certezza.

 

 

 

 

* Giornalista e scrittore