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La Germania e l’Europa. I primi segnali e le ragioni del cambiamento

Gabriele D'Ottavio - 29.01.2015
Angela Merkel

Ci sono buone ragioni per ritenere che anche la Germania possa rispondere alla crescente domanda di cambiamento, a dispetto della contestata rigidità tedesca sulla politica europea. Anzi, l’impressione è che proprio in Europa il governo tedesco abbia iniziato a mutare atteggiamento, per quanto tale cambiamento possa risultare impercettibile a uno sguardo superficiale. Il modo in cui i media (soprattutto quelli tedeschi) hanno raccontato le ultime decisioni europee non aiutano a cogliere le novità provenienti da Berlino. Il programma di investimenti strategici di Jean Claude Juncker, la maggiore flessibilità nell’applicazione dei vincoli finanziari europei annunciata dalla Commissione europea e soprattutto la nuova politica monetaria espansiva varata dalla Banca centrale europea, infatti, sono state presentate per lo più come misure imposte alla Germania contro la sua volontà. Al riguardo, è singolare che nessuno si sia chiesto come mai le istituzioni europee, che fino a qualche poco tempo fa venivano tacciate di essere eccessivamente sensibili alle preferenze tedesche, abbiano improvvisamente potuto adottare provvedimenti contrari alla linea dell’austerità. In realtà, parlare di decisioni europee subite dalla Germania non solo è riduttivo ma è anche fuorviante. Gli ultimi provvedimenti adottati dalle istituzioni sovranazionali segnalano un’inequivocabile, ancorché parziale, presa di distanza dalla linea rigorista finora dettata dalla Germania di Angela Merkel; d’altra parte, tali provvedimenti sono stati in larga parte co-determinati dalle stesse autorità tedesche. In particolare, il piano Juncker prevede un sistema basato sulla credibilità progettuale e attuativa dei singoli paesi europei, il che significa che soprattutto i meno «virtuosi» saranno chiamati ad accelerare il cammino delle riforme strutturali se vorranno sfruttare pienamente i finanziamenti europei. Per quanto riguarda invece la comunicazione adottata dalla Commissione europea, i nuovi margini di flessibilità nell’applicazione delle regole contabili per i bilanci degli Stati membri sono stati trovati nel rispetto dei trattati esistenti e non attraverso una loro modifica, coerentemente con la posizione che il ministro tedesco delle Finanze Schäuble va sostenendo sin da quando il confronto sulle politiche rigoriste è diventato più acceso. Infine, rispetto all’acquisto dei titoli sovrani annunciato da Mario Draghi, la condivisione formale dei rischi è stata fissata al minimo, così come era stato preteso dai «falchi tedeschi».

Sottolineare il fatto che la Germania non ha supinamente accettato le ultime decisioni prese a livello europeo ma anche contribuito alla loro definizione non significa negare le persistenti divergenze tra le posizioni tedesche e quelle di altri attori europei, né ridimensionare la sostanziale novità contenuta nei provvedimenti citati. Più banalmente, significa rimarcare il fatto che anche il governo tedesco, volente o nolente, ha iniziato a reagire alla domanda di cambiamento che viene dalle società europee.

Più in generale, rispetto a qualche mese fa si può notare da parte del governo tedesco un approccio meno assertivo e più dialogante nei confronti dei partner strategici, ferma restante l’intransigente difesa di alcune posizioni considerate non negoziabili. In questo senso si può leggere anche l’atteggiamento assunto da Angela Merkel in occasione del vertice italo-tedesco tenutosi a Firenze la settimana scorsa, nel corso del quale la Cancelliera ha preferito lodare gli sforzi profusi dal governo italiano piuttosto che impartire nuove lezioni su come si tengono i conti in regola.

Sulle ragioni di questo mutamento si possono avanzare diverse ipotesi. Sul piano internazionale è venuta meno la situazione emergenziale che a partire dalla metà del 2011 aveva reso necessaria agli occhi di Angela Merkel l’affermazione di una nuova leadership tedesca più autonoma e meno disponibile a condividere l’onere della decisione con gli altri paesi membri dell’eurozona. D’altra parte, rispetto alla fase iniziale della crisi europea il gruppo informale degli stati creditori sembra avere un potere negoziale più limitato. I recenti sviluppi della politica greca hanno inoltre portato in superficie una crescente impopolarità delle politiche rigoriste, i cui «effetti collaterali» (il montante «euroscetticismo antitedesco» e la vittoria di Syriza) potrebbero indurre gli stessi negoziatori tedeschi a ripensare la terapia da prescrivere per curare il malato. Sul piano della politica interna, invece, va rilevato che i due grandi appuntamenti elettorali – le elezioni federali del settembre 2013 e le europee del maggio 2014 – sono ormai alle spalle e che il governo di Grande coalizione potrebbe considerare di correggere il suo corso di politica europea, senza rischiare di pagare un prezzo politico eccessivamente elevato in termini di consenso. Né, infine, va ignorata quella che potrebbe essere la legittima aspirazione della Cancelliera, giunta al suo terzo mandato consecutivo, di dismettere i panni della brava amministratrice degli interessi dei tedeschi per indossare quelli della statista. Spesso criticata per i suoi silenzi assordanti e accusata di mancanza di coraggio, negli ultimi tempi Angela Merkel ha assunto posizioni molto dure sia nei confronti del movimento populista anti-islamico tedesco (Pegida), sia rispetto al ruolo della Russia nella crisi ucraina. Un piccolo riconoscimento per il suo impegno internazionale Angela Merkel l’ha già ottenuto dal quotidiano britannico Times, che nel dicembre scorso l’ha nominata «personaggio dell’anno».      

Sullo sfondo di un’apparente impermeabilità al mutamento della politica tedesca, anche a Berlino si intravedono i primi segnali e soprattutto alcune buone ragioni che potrebbero spingere la Cancelliera a virare, silenziosamente, sulla rotta del cambiamento.