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27 marzo 2024
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L’Austria vince una battaglia decisiva ma non ancora la guerra

Furio Ferraresi * - 07.12.2016
Alexander Van der Bellen

Alexander Van der Bellen è il nuovo Presidente della Repubblica austriaca. Il candidato indipendente ed ex leader dei Verdi è stato eletto con una maggioranza di voti superiore alle attese (quasi il 54%), sconfiggendo Norbert Hofer (46%), il candidato ultranazionalista del Partito della Libertà (Fpö). È stato possibile giungere a questo risultato dopo un tortuoso percorso elettorale: il primo turno delle presidenziali in aprile, il ballottaggio in maggio, l’annullamento del risultato in luglio per irregolarità nello spoglio delle schede degli elettori residenti all’estero, il rinvio del nuovo ballottaggio, fissato inizialmente in ottobre, a causa della colla, evidentemente di scarsa qualità, impiegata per chiudere le buste destinate ai votanti all’estero e infine il ballottaggio buono del 4 dicembre scorso.

Ha vinto l’Austria europeista, inclusiva e aperta, mentre è stato sconfitto chi avrebbe voluto trasformarla nel primo Paese con un presidente di estrema destra eletto direttamente dal popolo, l’apripista di quell’internazionale del populismo xenofobo che gonfia le vele in tutta Europa. Vienna non entrerà dunque nel gruppo di Višegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), come aveva invece auspicato Hofer in campagna elettorale, richiamandosi a presunte radici culturali comuni ma soprattutto alla necessità di una gestione dell’immigrazione diversa da quella annunciata, anche se mai praticata, dall’UE.

La vittoria di Van der Bellen non era scontata e nelle proporzioni in cui si è realizzata, era addirittura inaspettata. Nel primo ballottaggio, quello annullato dalla Corte costituzionale, l’ex leader dei Verdi aveva vinto con uno scarto di appena trentamila voti sul rivale Hofer, risultato nettamente vincitore nel primo turno di aprile con il 35% dei consensi contro il 21% di Van der Bellen. Tra il ballottaggio di maggio e quello di dicembre, inoltre, si sono verificati due eventi altrettanto inattesi come la Brexit e l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti. Si temeva, quindi, un effetto contagio su un elettorato già largamente sensibile sia all’ipotesi di Öxit (l’uscita dell’Austria dall’UE), caldeggiata da Hofer in una recente intervista alla BBC, sia alla propaganda anti-establishment e anti-élite profusa a piene mani dai liberalnazionali della Fpö. Nella lunghissima campagna elettorale, infine, i temi classici dello scontro tra le visioni del mondo alternative dei due leader non erano certo scomparsi né si erano annacquati, ma anzi radicalizzati: la questione dei profughi e dei migranti, con l’accento posto sui costi dell’integrazione e con l’apertura di un nuovo dossier rappresentato dalla cosiddetta Mindestsicherung (una sorta di “reddito di cittadinanza”), che alcuni settori del Partito Popolare (Övp) avrebbero voluto differenziare per profughi e migranti regolari rispetto ai nazionali; il pericolo di islamizzazione dell’Europa, con particolare attenzione all’opportunità o meno che l’UE riprendesse i negoziati di adesione con la Turchia; il tema della sicurezza delle città, declinato ovviamente in chiave anti-immigrazione. Ebbene, nonostante queste premesse, l’effetto contagio non solo non c’è stato, ma se c’è stato, è stato di segno inverso, perché il desiderio di stabilità e di continuità è infine prevalso sui foschi scenari internazionali di crisi e la moderazione rispetto ai temi di politica interna e anche riguardo all’interpretazione del proprio ruolo istituzionale è stata maggiormente apprezzata.

Van der Bellen ha compreso molto bene che avrebbe potuto vincere solo in due modi. Da un lato, spostando, anche di pochissimo, i voti dei cosiddetti “indecisi” (soprattutto popolari), vale a dire di quegli elettori di centro che avrebbero votato non per il candidato più affine ideologicamente (erano esclusi dal ballottaggio sia i candidati popolari sia quelli socialdemocratici), ma per quello che apparisse loro più moderato, anche nei toni; dall’altro, portando al voto una parte di chi si era astenuto nel primo ballottaggio. Egli è riuscito a realizzare entrambi i propositi. L’affluenza alle urne, infatti, è aumentata rispetto al ballottaggio di maggio (74,2% contro 72,6%), soprattutto per il timore di consegnare l’Austria a chi in maggio aveva già dimostrato di avere dalla propria parte metà dell’elettorato. Van der Bellen, inoltre, è stato abile nel consolidare la propria immagine rassicurante d’intellettuale che pensa prima di parlare, che riflette prima di agire e che non raccoglie le provocazioni dell’avversario, tranne quando Hofer ha infangato la memoria del padre, insinuando che fosse filonazista perché era un profugo russo rifugiatosi in Austria durante la Seconda guerra mondiale.

Van der Bellen ha avuto il sostegno, oltre che dei Verdi, dei socialdemocratici e dei popolari – anche se negli ultimi giorni alcuni esponenti della Övp si sono pronunciati a favore di Hofer –, della stampa e degli intellettuali, tanto da apparire agli occhi dei suoi detrattori come il tipico esponente delle odiate élite e della Schickeria viennese. Le prime analisi del voto confermano alcuni di questi stereotipi: l’83% dei laureati ha votato Van der Bellen, contro il 17% che ha invece scelto Hofer; l’85% degli operai ha votato per il candidato della Fpö e solo il 15% per quello appoggiato anche dai socialdemocratici. Sono indicative anche le linee di divisione per genere: le donne hanno votato in maggioranza Van der Bellen (62%), i maschi Hofer (56%); anche giovani e abitanti delle città hanno preferito il candidato dei Verdi.

Vi è un errore di valutazione che non va assolutamente commesso: pensare che il pericolo sia scampato e che tutto possa continuare come prima. In realtà, questa lunga campagna elettorale, oltre alle divisioni interne alla società su quali debbano essere il futuro stesso dell’Austria e la sua collocazione geopolitica, ha esasperato anche le contrapposizioni all’interno della stessa maggioranza di governo, quella Grosse Koalition tra socialdemocratici e popolari che appare sempre più sfibrata e politicamente esaurita. Il cancelliere socialdemocratico Christian Kern, subentrato a Werner Faymann dopo lo shock del primo turno delle Presidenziali, non è finora riuscito a imprimere nuovo slancio all’azione di un governo che sembra sempre più incapace di affrontare i problemi e le sfide più urgenti, a cominciare proprio da quella dei profughi e dei migranti. I litigi continui all’interno dell’alleanza fanno ritenere che le elezioni politiche del 2018 potrebbero essere anticipate al 2017. È certo che se avesse vinto Hofer, oggi questa ipotesi sarebbe molto più quotata, ma che abbia vinto Van der Bellen non può autorizzare nessuno all’attendismo o all’inerzia, perché resta il dato politico di un partito di estrema destra che da solo, contando solo sulle proprie forze, arriva molto vicino al traguardo della Presidenza. Il che testimonia che esso è nel frattempo diventato un partito popolare oltre che populista, largamente radicato negli strati operai e nel ceto medio-basso impoverito dalla crisi, e questo dovrebbe allertare i due tradizionali “partiti di massa” ormai destinati a un lento ma inesorabile calo di consensi. Secondo gli ultimi sondaggi, infatti, se si andasse oggi a votare, l’Fpö risulterebbe il primo partito con percentuali che oscillano tra il 30 e il 35%, i socialdemocratici si attesterebbero ben al di sotto del 30%, i popolari addirittura al di sotto del 20% e i Verdi intorno al 12%. Se queste previsioni sono attendibili, il prossimo cancelliere austriaco potrebbe essere o Heinz-Christian Strache, l’attuale leader dei liberalnazionali, o lo stesso Hofer, ormai attestatosi come credibile competitore di Strache per la guida del partito.

Questo scenario spiega le recenti manovre di avvicinamento tra Spö e Fpö, culminate in un dibattito televisivo tra Kern e Strache durante il quale, invece delle bastonate, si son visti riconoscimenti inusuali, inaspettate aperture di credito, melliflue blandizie. L’ipotesi di una futura coalizione rosso-blu non è ovviamente appoggiata da tutti, non per esempio dal sindaco socialdemocratico di Vienna Michael Häupl, che ne ha già preso le distanze, confermando così la persistenza della Vranitzky-Doktrin, secondo la quale non sono possibili coalizioni con la Fpö. Nella regione del Burgenland, in realtà, socialdemocratici e liberalnazionali governano già insieme, all’insegna del pragmatismo post-ideologico, e lo stesso è accaduto a livello federale nella prima metà degli anni Ottanta. Se si tratti solo di tattica o se vi sia qualcosa di più, lo vedremo nei prossimi mesi; molto dipenderà in ogni caso sia da come la Övp affronterà la propria crisi sia da come i Verdi riusciranno a capitalizzare l’indubbio successo ottenuto con l’elezione di Van der Bellen, magari puntando a rilanciarsi come partito popolare di centro-sinistra che pescando da entrambi i partiti tradizionali in crisi scompagina il quadro politico.

Che la previsione del primo presidente di estrema destra eletto in Europa sia stata smentita dalla realtà del primo presidente verde eletto in Europa non può essere un alibi per non affrontare il tema dell’esigenza di cambiamento, avvertita dalla maggioranza degli austriaci, la cui interpretazione e traduzione politica non possono essere lasciate appannaggio delle forze xenofobe e anti-europee, che se oggi sono state respinte in una battaglia decisiva domani potrebbero vincere la guerra.

 

 

 

 

* Furio Ferraresi insegna Storia delle dottrine politiche nell’Università della Valle d’Aosta