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27 marzo 2024
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L’eredità di Gezi Park e il riscatto delle minoranze: l’altro volto della Turchia

Carola Cerami * - 27.06.2015
Gezi Park

“Con questo voto hanno vinto coloro che stanno dalla parte della giustizia, della libertà, della pace e dell’indipendenza. Curdi, armeni, turchi, sunniti, cristiani, hanno vinto tutti coloro che si sono sentiti esclusi. Hanno vinto gli emarginati, i disoccupati, e tutti coloro che hanno dovuto soffrire per vivere. E’ anche una vittoria per le donne che hanno sostenuto il nostro partito. Oggi ha vinto la democrazia. Una nuova pagina si sta scrivendo nella Storia del nostro Paese”.

Con queste parole il giovane e carismatico leader del nuovo Partito Democratico dei Popoli (HPD), Selahattin Demirtaş, festeggia il successo del suo partito alle elezioni politiche del 7 giugno. L’HPD entra così in parlamento per la prima volta con il 13% dei voti, superando la soglia di sbarramento (10%) e guadagnando 80 seggi. La vera novità è che il Partito Democratico dei Popoli è un partito con una forte matrice curda, sebbene esso si presenti come un partito di sinistra turco, pluralista e aperto a tutte le minoranze etniche, religiose e civili. Demirtaş, 42 anni, avvocato per i diritti umani, fondatore di Amnesty International a Diyarbakir (città curda a sud-est della Turchia, diventata il simbolo della vittoria dell’HPD), ecologista, impegnato per i diritti civili degli omosessuali, ha saputo conciliare le esigenze del popolo curdo che chiede parità culturale, uguale cittadinanza e poteri di autogoverno con la necessità di mantenere salde le credenziali di un partito di cambiamento nazionale. Demirtaş ha agito laddove Erdoğan ha fallito: ha fiutato e intercettato la necessità di cambiamento, di pluralismo e di rinegoziazione sociale di una parte della società civile turca. Ha cercato il sostegno delle organizzazioni legate ai diritti umani e alla libertà di espressione, ha assegnato alle donne un ruolo centrale e prioritario, ha inserito fra i candidati appartenenti a varie minoranze religiose e ha dato rappresentanza e voce alle associazioni LGBT. Demirtaş ha anche ascoltato la voce delle nuove generazioni e ha accolto la preziosa eredità e le istanze provenienti dal movimento di protesta pubblica e di resistenza civile di Gezi Park del maggio - giugno 2013. Considerato dai tradizionali partiti politici e da alcuni studiosi un movimento di protesta minoritario giovanile, è stato erroneamente sottovalutato. La sociologa Nilüfer Göle ci ricorda che nelle democrazie mature non si dovrebbe mai trascurare l’importanza e il potere trasformativo delle minoranze attive. Demirtaş ha colto la portata innovativa del movimento e la richiesta proveniente dalle giovani generazioni di un nuovo e ancora inesplorato paradigma di convivenza sociale in grado di superare la polarizzazione della società turca fra il tradizionale autoritarismo kemalista da una parte e il più recente autoritarismo paternalistico islamico dall’altra.

Ricordiamo che il movimento di Gezi Park formato inizialmente soprattutto da studenti, ambientalisti, sindacati, esponenti della sinistra, laici e curdi, è poi cresciuto per ampiezza ed eterogeneità e ad esso sono affluiti gruppi e associazioni di diversa appartenenza politica e religiosa. Si è trattato soprattutto di giovani fra i 19 e i 30 anni, la cosiddetta “generazione Y” nata fra la metà degli anni Ottanta e degli anni Novanta. Una nuova generazione informata e moderna, che ha cominciato ad avviare innovative richieste di pluralismo e di partecipazione sociale, e ha rilanciato la ricerca di una democrazia partecipativa e matura, capace di accogliere le diversità, le minoranze, la libertà di stampa e di espressione, il rispetto degli spazi pubblici e delle libertà individuali. Il movimento di Gezi Park non era però convogliato in alcun partito politico e non aveva trovato espressione nello scenario politico turco, esso sembrava essere espressione di una nuova aspirazione di “convivenza sociale” che la politica non era ancora in grado di affrontare. Sembrava dunque che tale protesta non fosse riuscita ad incanalarsi in alcun progetto politico di rilievo e fosse andata politicamente dispersa. Demirtaş ha invece fatto tesoro di questa eredità, e rilanciando il suo partito in termini nazionali e non soltanto filo-curdi, è stato in grado di attrarre i voti della “generazione Y”, ottenendo l’appoggio di molti giovani che votavano per la prima volta. Ma hanno votato per l’HDP anche molti laici, progressisti e liberali turchi insoddisfatti della poco incisiva opposizione dei social democratici del Partito Popolare Repubblicano (CHP).

Nell’analisi della vittoria di Demirtaş non possiamo trascurare il ruolo fondamentale del popolo curdo e gli errori compiuti da Erdoğan sul fronte siriano. Erdoğan ha sottovalutato l’ascesa dei curdi e anche durante l’assedio di Kobane ha mostrato un atteggiamento ambiguo e fallimentare. Così l’AKP ha perso metà dei deputati nelle provincie ai confini con la Siria ed è scomparso nelle zone curde. Il partito di Erdoğan, pur ottenendo il 40, 9 % (258 seggi) perde la maggioranza assoluta di 276 seggi e arretra di quasi 10 punti. Il progetto di Erdoğan di modificare la costituzione e insediare una repubblica presidenziale si è interrotto, mentre i curdi sono per la prima volta rappresentati da un partito e vivono il loro riscatto politico. Dalle urne esce dunque sconfitto il progetto di repubblica presidenziale, inoltre subisce una battuta d’arresto il tentativo dell’AKP di monopolizzare il potere amministrativo e burocratico e i punti nodali dello Stato. Come scrive lo studioso turco Ziya Öniş, la “nuova Turchia post Kemalista” di Erdoğan, nell’ultima fase di governo dell’AKP, si è indirizzata verso una forma di “democrazia illiberale” nella quale sebbene esistano le istituzioni formali della democrazia, tuttavia esse sono guidate da una maggioranza che tenta di monopolizzare il potere e restringere gli spazi del resto della società in un contesto politico di forte disuguaglianza. Il voto del 7 giugno ha espresso il forte disagio di una parte della società civile turca verso tali pratiche. Così, come avevamo anticipato sulle pagine di questo giornale un anno fa, la “nuova Turchia” di Erdoğan, proclamata subito dopo le elezioni presidenziali del 2014, ha ormai ben pochi elementi di novità. Al contrario, il volto della “nuova Turchia” si trova nella rivincita delle minoranze, nella creatività e modernità di una nuova generazione turca e più in generale, nella ricerca costante di una parte della società civile di negoziare e ripensare le norme e le convenzioni esistenti. Le elezioni politiche turche hanno costituito un sussulto di vitalità per la democrazia turca. La parte più progressista e liberale della società civile turca è guardiana vigile, attenta e non sottomessa del destino del proprio paese.

 

 

 

 

* E' assegnista di ricerca in Storia internazionale all’Università di Pavia e direttore dell’International Center for Contemporary Turkish Studies di Milano