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Italia riprendi a crescere, ma come?

Gianpaolo Rossini - 25.02.2017
Istat

L’Istat comunica che nel 2016 la crescita del Pil è dell’1%. Notizia buona dopo anni di stagnazione, ma al di sotto di ciò che vorremmo e condita da una previsione per il 2017 sotto l’1%. Insomma siamo lumache e non recuperiamo il livello pre 2008. Qualche settimana fa ho delineato i motivi della lentezza economica del bel paese. Ora vediamo quali strade percorrere per uscire dalla impasse.  

 

Le chiavi della crescita

La produttività

E’ uno dei nervi scoperti perché dal 2003 al 2015 il prodotto orario per lavoratore in Italia cala da 101 a 98. Per invertire la rotta dobbiamo investire di più (siamo ancora ¼ sotto il livello pre 2008) ammodernando le imprese nel loro cuore produttivo. Ma come fare? Iniziamo dalle migliaia di partecipate da entità pubbliche locali e nazionali, soprattutto “utilities” che godono spesso di posizioni di monopolio locale. Soprattutto nel Nord Italia incassano cospicui utili e quindi hanno risorse per investire. Se le infrastrutture sono così rese più efficienti e moderne possono contribuire alla produttività anche di altre imprese nei servizi e nella manifattura. Devono investire di più anche le imprese privatizzate. Sorprende la concessione di aumenti dei pedaggi autostradali dal 4 all’8% a inizio 2017 in presenza di inflazione da tempo in territorio negativo. Si tratta di misure che incrementano rendite cospicue di monopolio (e disuguaglianza) e senza neppure una contropartita in termini di investimenti. Ahimè imprese come Autostrade per l’Italia del gruppo Benetton Del Vecchio, Ilva, Telecom investono pochissimo, fanno scarsa manutenzione e non sviluppano reti e impianti.  Le autostrade, un tempo in mano pubblica erano tra le migliori d’Europa e garantivano una rendita al tesoro, ovvero ai cittadini. Oggi sono, in ingorde mani private, tra le più scassate così come la rete telematica. Gran parte delle ex imprese pubbliche, svendute a prezzi di saldo, sono oggi una palla al piede della crescita italiana: l’opposto di ciò che ci si aspettava. I programmi di privatizzazioni annunciati dal ministro Padoan per ridurre il debito pubblico non gioveranno all’economia italiana ma la freneranno accentuandone i problemi. Dal punto di vista finanziario sono un nonsense perché si cedono quasi sempre cespiti che rendono più della media dei titoli pubblici. Sono quindi un’operazione in perdita che aggrava il peso del debito pubblico. Il saggio e coeso Giappone con un debito pubblico pari a due volte e mezzo il suo Pil non privatizza quasi nulla.  

 Occorre esperire tutte le strade per spingere gli investimenti. Incentivi fiscali esistono ma occorre una semplificazione per l’accesso a questi benefici. Gli investimenti che aumentano la produttività non sono solo e sempre macchinari, robot e quant’altro ma a volte rappresentano semplici miglioramenti dell’ambiente di lavoro in termini di salubrità, sicurezza e attrattività per chi ci lavora. Un esempio? Qualche anno fa la Piaggio di Pontedera si impegnò per un moderno impianto di climatizzazione in tutti gli stabilimenti. Ci fu un balzo della produttività del lavoro, una maggiore sicurezza e una accresciuta attrattività di una occupazione in Piaggio. Insomma un investimento ripagato in fretta che ha beneficiato proprietà e dipendenti.  

Vi sono investimenti con effetto differito nel tempo. Proprio per questo devono essere accelerati. Sono quelli in capitale umano, in ambiente fuori e dentro le imprese e nella capacità di esportare. Sul primo aspetto già si spendono fiumi di inchiostro sulla necessità di sviluppare scuole tecniche per l’avvio immediato dei diplomati nelle numerose imprese che a tutt’oggi non trovano forza lavoro. Ci sono in Italia circa mezzo milione di ruoli tecnici vacanti che non si riesce a coprire e che costituiscono un grosso freno alla crescita delle imprese.  Le scuole non bastano. Le associazioni imprenditoriali di categoria (Confindustria, Confartigianato, Confcommercio etc.) dovrebbero allora contribuire con corsi brevi specifici di avviamento al lavoro, gratuiti, possibilmente di livello qualitativo superiore ai molti che offre un mercato poco efficiente. E infine dobbiamo nelle scuole tecniche percorsi (anche qualche laurea breve) che insegnino ad esportare. Il 2016 ha visto un notevole successo del made in Italy. Ma solo il 20% delle imprese esporta. Associazioni come quelle menzionate sopra devono insegnare ad esportare a futuri dipendenti e imprenditori. Esportare è un toccasana per crescere e per avere ricavi più stabili. In più il confronto sui mercati esteri è un prezioso stimolo all’innovazione, che fiorisce nelle aziende che esportano e latita dove ci si limita al mercato interno.

 

Edilizia un settore fermo e periferie degradate

Un settore che pesa nella non crescita italiana è l’edilizia. Abbiamo uno stock di immobili abitativi e industriali eccedente le esigenze del paese. Occorre iniziare a pensare incentivi all’abbattimento di edifici in disuso. Per quelli industriali, a fronte di spese certificate per la demolizione da parte dei proprietari i comuni potrebbero essere dotati di risorse pubbliche per il risanamento ambientale gratuito del sito dello stabilimento industriale secondo regole e modalità uniche a livello nazionale.

Terremoti e calamità naturali sono un costo ma anche occasione per piani radicali e innovativi. La base è una assicurazione obbligatoria per ogni immobile contro le calamità naturali cui, in varia misura, tutto il territorio nazionale è soggetto. Il problema è che non tutti gli immobili sono assicurabili nelle condizioni in cui si trovano ora in quanto inadeguati a sostenere una qualsiasi calamità. In questi casi le compagnie assicuratrici possono avere un duplice ruolo: assicurare e cofinanziare ristrutturazioni, abbattimenti e ricostruzioni in loco con medesima cubatura emersa – eventualmente maggiorata solo nel sottosuolo – di edifici abitativi e non. In cambio le imprese assicuratrici possono stipulare polizze assicurative per 99 anni legate all’immobile e non al proprietario. Tutto questo rimetterebbe in moto l’edilizia abitativa di qualità senza impatto sul consumo di suolo e di paesaggio. Potremmo così dare inizio al processo di ricostruzione e miglioramento di periferie neglette e di piccoli paesi. L’abbattimento selettivo dovrebbe essere intrapreso su base incentivata per cercare di ridurre l’offerta di immobili e migliorare ambiente, paesaggio e sicurezza.  

 

Regole semplici e chiare da applicare e monitorare

Regole semplici sono un fattore di crescita intangibile necessario visto che il 10% di italiani è di origine straniera. Questo non significa deregolamentare ma regolare in modo comprensibile immediatamente a tutti. La nostra cultura giuridica non è pronta, ma deve e può trasformarsi. Non possiamo rinunciare a questo obiettivo imposto dalla nuova composizione della popolazione. La complessità normativa è una tassa occulta che mangia risorse impedendo una agevole integrazione civile degli stranieri. Occorre investire su aspetti apparentemente marginali come il linguaggio della comunicazione amministrativa e sulla unificazione degli standard su tutto il paese. Un esempio? Abbiamo norme locali talmente cervellotiche e complicate per la raccolta differenziata che molti cittadini finiscono per rovesciare spazzatura in maniera illegale nei comuni confinanti. Per evitarlo bastano  semplificazione e unicità delle norme. Impossibile? Non credo.

 

Il debito pubblico

Il debito pubblico di per sé non ostacola la crescita. Ma con i mercati finanziari in cui l’Italia è integrata e con le regole miopi di eurolandia il debito pubblico è una spada di Damocle sull’economia italiana. E anche se abbiamo un debito estero quasi inesistente dobbiamo cercare di ridurre il nostro debito pubblico soprattutto cercando di contenere la spesa per interessi. Ma come? Alcuni economisti sostengono che stiamo entrando in una stagnazione lunga (secolare?) che è associata a tassi di interesse reale vicini allo zero. E che quindi non ci dobbiamo preoccupare. Difficile dare torto o ragione in quanto le previsioni a lungo sono sempre aleatorie. Il paradosso italiano è che produciamo una montagna di risparmio che fatica ad essere canalizzata verso i titoli di stato. E questo impedisce l’abbattimento degli spread, fa crescere il peso del servizio del debito e la sua relativa volatilità, con la conseguenza che ogni piccola turbolenza provoca la puntuale svendita di gioielli pubblici con gli effetti visti sopra. Purtroppo dall’Europa non arrivano né eurobonds né assicurazione federale sui depositi bancari e quindi la nostra unione monetaria è una bizzarria istituzionale cui occorre far fronte con una buona dose di innovazione e fantasia. Ma come? Si potrebbero introdurre titoli di stato sopra i tre anni al portatore ad un interesse pari a quello dei buoni tedeschi. Acquistabili anche in contanti in banca con cedole versate su un conto di deposito collegato. Alla scadenza dovrebbero essere liquidati su un conto corrente e non in contanti. Potrebbero essere ceduti prima della scadenza cambiando il conto corrente su cui avverrà la liquidazione finale. Nel corso del secolo diciannovesimo e ventesimo nel mondo gran parte dei titoli sovrani erano al portatore, come si legge nei Fratelli Karamazov e nell’ Idiota di Dostoevskij dove i protagonisti convertono in denaro contante cartelle di debito pubblico al portatore da 1000 rubli al 5%. Titoli di stato di questo tipo sarebbero molto appetibili e rimetterebbero in circuito virtuoso una grande massa di risparmio che oggi va all’estero o in attività finanziarie non sempre sane.

 

La coesione

Con una quota di cittadini non autoctoni di circa il 10% e in aumento c’è bisogno non solo di semplicità ed efficacia delle regole ma anche di coesione civile. Una necessità un po’ negletta dal nostro sistema scolastico a differenza di Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania. La scuola in tutte le sue fasi ponga un particolare accento sul senso di appartenenza civile alla comunità italiana, attraverso uno studio più accurato della storia, delle istituzioni, della lingua, della letteratura e delle arti del nostro paese. Chi frequenta una scuola italiana deve  acquisire un senso di appartenenza alla cultura e al capitale sociale della comunità italiana. Negli Usa ad ogni manifestazione scolastica si fa alzabandiera e si canta l’inno nazionale. Laggiù la prima missione della scuola è di formare cittadini americani. Quello di apprendere nozioni è secondo anche se importante. Questo vale a maggior ragione in Italia dove la scuola è soprattutto pubblica. Qui deve dunque sviluppare coesione civile, chiave per integrare diverse culture. Altrimenti il rischio è la frantumazione, che mina la sostenibilità del sistema di sicurezza sociale, la stabilità finanziaria e in definitiva la fiducia dei cittadini nel loro paese.

 

La popolazione

Un aspetto di primaria importanza riguarda la popolazione, sulla quale già ho scritto nel precedente articolo sulle ragioni della non crescita. La popolazione autoctona italiana ha perso negli ultimi tre decenni oltre due milioni di persone. Le interruzioni volontarie di gravidanza sono diminuite rispetto agli alti livelli  degli anni 80 e 90 del secolo scorso quando quasi una gravidanza su 4 era interrotta. Ma sono ancora alte e occorrerebbe una maggiore attenzione, mentre invece si tratta di un tema sul quale c’è un inquietante silenzio. Il costo economico in termini di spesa sanitaria è oggi, a fronte di una media di 100000 interruzioni all’anno, di circa 100 milioni di euro annui (circa 1000 euro per aborto). Da quando la sanità pubblica ha iniziato questa pratica nel 1982 abbiamo speso oltre 6 miliardi di euro, una cifra esorbitante che ha creato una generazione perduta di 6 milioni di persone cui non è stato dato il diritto di vedere la luce. In termini economici la spesa è pari a quella che avremmo sostenuto per il ponte sullo stretto. La decrescita della popolazione italiana rende necessarie decisi disincentivi. Ma dobbiamo anche aiutare concretamente la costituzione di famiglie giovani non solo con agevolazioni fiscali ma anche con una rete di servizi che in alcune parti d’Italia è ancora carente soprattutto nei piccoli centri che vanno spopolandosi.

Insomma se l’Italia vuole riprendersi ci sono tante strade da percorrere, tutte ugualmente prioritarie.