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20 aprile 2024
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Il PD, le primarie e la forma-partito

Paolo Pombeni - 20.01.2015
Sergio Cofferati

Surreale è un aggettivo che ormai si spreca quando si parla di politica italiana, ma la faccenda delle primarie liguri con la decisione di Cofferati di abbandonare il PD non sapremmo come definirla diversamente.

Infatti come non meravigliarsi che ci si accorga a cose fatte che il sistema di regolazione delle primarie è stato concepito alla luce degli ideologismi di mode imperanti,mentre era da sempre sin troppo evidente che era un meccanismo che non poteva reggere? Qualcuno provò a dirlo nei corridoi (perché più in là non fu ammesso) della prima assemblea nazionale del PD (anche chi scrive, che ne faceva parte), ma naturalmente non era un argomento che piaceva, neppure a quelli che oggi sgomitano per piangere sulla sinistra tradita.

Consentire di scegliere un candidato alle elezioni a chi non è poi titolato ad essere elettore è un palese controsenso in regime di suffragio universale. Il rischio che chi non è neppure formalmente titolare di una cittadinanza elettorale (sedicenni e cittadini di altri stati) potesse diventare preda di manipolazioni, per non dire di peggio, era facilmente prevedibile. In un paese poi come il nostro dove il senso dell’etica pubblica è piuttosto basso il rischio era altissimo.

Non parliamo dell’accesso aperto ai seggi per chiunque salvo la formalità del versamento di una elemosina al partito. Ovvio che questo supponeva che chiunque avesse avuto piacere di prendere parte a quella operazione era autorizzato a farlo e discettare a posteriori su chi era interessato alla causa e chi invece partecipava per boicottarla è un non senso. Del resto anche nei seggi elettorali si ammettono tutti a prescindere dal sapere se capiscono davvero quel che stanno facendo …

Il problema vero è che, a parte le bizzarrie dell’acceso consentito ai non-elettori, non si sapeva come fare ad avere primarie organizzate in maniera ragionevole. Far votare alle primarie solo gli iscritti al PD sarebbe un suicidio, perché, purtroppo, i tesserati non rappresentano più un campione credibile dell’elettorato: è un nucleo troppo ristretto, generazionalmente sbilanciato verso gli over 55 (per essere ottimisti), manipolabilissimo dalla nomenclatura delle dirigenze locali, a loro volta espressione più di correnti della politica professionale che dell’opinione pubblica.

La soluzione di tentare di avere un filtro di qualche genere è stata fatta con la richiesta, all’epoca delle primarie che videro vincitore Bersani, di iscrizioni preventive in apposite liste. Era un modo di copiare i registri di elettori delle primarie americane. Non funziona perché richiede tempo e si scontra contro la diffidenza italiana a “farsi schedare” politicamente, visto che pochi si fidano che questo poi non abbia ricadute in un paese dove vige un certo spoils system barbarico.

Non ci voleva nessuna particolare qualificazione per rendersi conto di questi rischi e se Sergio Cofferati non se ne era reso conto in anticipo c’è da dubitare del suo acume politico. Ovviamente criticare Cofferati è come sparare sulla Croce Rossa. A parte la sua performance come leader della CGIL per essere salito su un palco davanti a milioni di persone, non si ricorda poi una sua operazione politica rimasta nella memoria del paese. A Bologna fu eletto sindaco grazie alla forza d’insediamento dei DS e li ricambiò piantandoli in asso all’improvviso, probabilmente quando temette che la sua rielezione fosse a rischio (non era esattamente popolare). Ricambiato dal suo partito nonostante questo con candidature al parlamento europeo non si ha traccia di suoi interventi così significativi da avere raggiunto l’opinione pubblica. Abbiamo letto che intende fondare una associazione culturale, ma non ricordiamo, non diremo un suo libro o un saggio, ma neppure un articolo di giornale che abbia lasciato il segno e di cui oggi ancora si discuta.

Al di là di questo, la sua uscita teatrale è servita solo a rilanciare un ulteriore aspetto della crisi di quella forma-partito informe che è oggi il PD. In un momento delicatissimo come la vigilia dell’elezione del nuovo presidente della repubblica, si rende evidente che quella che una volta era non diremo la disciplina di partito, ma più semplicemente l’etica pubblica per cui si aderisce ad una certa formazione è andata a farsi benedire. La vicenda Cofferati è servita ai vari Fassina, Civati e compagnia cantante a correre a dichiarare ai giornali che sono pronti a mettere in discussione il lavoro del loro segretario per dare una soluzione alla successione a Napolitano.

Non è che siamo insensibili al valore di un partito dove si discute. Semplicemente notiamo che continuare a sciorinare le litanie, del “non siamo più di sinistra”, “non vogliamo il patto del Nazareno”, “vogliamo modificare il Jobs Act” e via dicendo, non è discutere: quello sarebbe scendere in campo con serie analisi e proposte, con azioni incisive che hanno possibilità di successo.

Se il PD andrà male o anche solo meno bene in futuro non sarà colpa di questo presunto allontanamento dalla sinistra, ma dello sfaldarsi della sua capacità di essere davvero un partito politico che elabora ed indica una sua prospettiva al paese.