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17 aprile 2024
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Il destino delle riforme dopo il referendum costituzionale

Daniele Coduti * - 28.12.2016
Livio Paladin

Il 4 dicembre scorso gli elettori si sono pronunciati in maniera chiara contro l’ampio progetto di riforma costituzionale approvato dal Parlamento nell’aprile del 2016. Sebbene siano emerse varie motivazioni che hanno indotto a votare “sì” o “no” al referendum, esso ha riguardato un’organica proposta di riforma della Costituzione e la sua reiezione popolare avrà delle conseguenze sul processo riformatore e sulle istituzioni nazionali. Si può provare a ipotizzare quali saranno alcune di queste conseguenze.

Innanzitutto, il “no” al referendum sembra escludere per i prossimi anni un ulteriore organico intervento di revisione costituzionale. Dal punto di vista giuridico, nulla impedirebbe un nuovo tentativo nei prossimi anni, ma la reiezione di due ipotesi di riforma che intendevano mutare l’assetto bicamerale e il sistema dei rapporti tra Stato e Regioni in dieci anni (nel 2006 e nel 2016) sembrano esprimere una netta contrarietà popolare a ipotesi siffatte. Da un punto di vista politico, inoltre, sembra improbabile che altri esponenti politici vorranno mettere in gioco la propria leadership scommettendo sull’improbabile sostegno popolare alle “grandi riforme”. Meno rischiosa sarebbe una riforma approvata dai due terzi dei componenti di ciascuna Camera perché eviterebbe un nuovo referendum, ma – considerato l’attuale assetto politico e partitico – anche tale ipotesi appare difficile da concretizzare.

Rinunciando all’idea di una revisione organica, si potrebbe pensare a riforme circoscritte della Costituzione, che potrebbero avere maggiori chance di successo, ma il voto espresso dagli elettori nell’ultima consultazione referendaria non può essere considerato privo di effetti neanche a tal riguardo.

Un primo oggetto di riforma potrebbe essere il bicameralismo paritario, ma la reiezione per ben due volte di progetti di revisione volti a trasformare il Senato in una Camera rappresentativa delle autonomie territoriali rende difficile perseguire nuovamente tale obiettivo. Si potrebbe forse ipotizzare una riforma del Parlamento in senso monocamerale, tuttavia anche questa ipotesi non sembra di facile realizzazione. Innanzitutto, l’articolazione territoriale dell’Italia e l’alta conflittualità tra Stato e Regioni fanno dubitare che tale ipotesi sia adeguata alle esigenze della Repubblica delle autonomie italiana; inoltre, la recente campagna referendaria ha evidenziato una ritrosia di parte delle forze politiche e dell’elettorato a rinunciare a una doppia rappresentanza in Parlamento, che si scontrerebbe anche con l’ipotesi monocamerale; infine, sebbene sia una considerazione banale, non sembra agevole convincere i senatori a votare nuovamente per la soppressione dell’organo a cui appartengono.

Un secondo oggetto di riforma potrebbe riguardare i poteri delle Regioni e i loro rapporti con lo Stato. Dopo la riforma del 2001, gli elettori hanno rigettato sia un’ipotesi di (presunta) “federalizzazione” (nel 2006) sia quella che rafforzava il ruolo dello Stato (nel 2016), sicché appare difficile ipotizzare nuovi interventi di riforma del Titolo V in un senso o nell’altro. L’esito dell’ultima consultazione referendaria sembra porre piuttosto un dubbio. La riforma del 2016 perseguiva una valorizzazione del ruolo statale nel rapporto con le Regioni che rappresentava – per molti versi – il recepimento in Costituzione di una giurisprudenza della Corte costituzionale parecchio severa nei confronti dell’autonomia regionale; è lecito chiedersi, perciò, se il voto referendario possa avere un impatto sui rapporti tra Stato e Regioni, inducendo a ritenere necessaria una rivalutazione dell’autonomia regionale delineata nel Titolo V novellato nel 2001.

Una riforma costituzionale mirata, poi, potrebbe riguardare le Province, che più Governi hanno provato a ripensare ma scontrandosi sempre con la loro garanzia costituzionale. Pure in questo caso non appare agevole ipotizzare una loro prossima decostituzionalizzazione, poiché quest’ultima ipotesi era prevista proprio nella riforma da ultimo respinta, ancor più se si considerano le voci che si sono levate in difesa di tale ente locale durante la campagna referendaria. Peraltro, la bocciatura della riforma costituzionale pone dei problemi inerenti alla tenuta dell’attuale disciplina legislativa dell’ente locale di area vasta. Infatti, la disciplina vigente è dettata dalla legge 56/2014 (c.d. legge Delrio) «in attesa della riforma del Titolo V» (art. 1, co. 5 e 51); poiché tale riforma è stata respinta con il referendum, la stessa legittimità costituzionale della disciplina in questione potrebbe essere messa in discussione. In ogni caso, confermato che la Provincia rappresenta uno degli enti costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost., sembra inevitabile che le Province (ri)ottengano le risorse – finanziarie e di personale – necessarie a esercitare le proprie funzioni.

Infine, un cenno va fatto al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), che il costituzionalista Livio Paladin definiva “organo nato morto”. Più volte si è provato a sopprimere o riformare tale organo costituzionale ma sempre senza successo; durante l’ultima campagna referendaria diverse voci si sono levate in sua difesa e – secondo le ricostruzioni giornalistiche – la reiezione della riforma costituzionale è stata accolta con veri e propri festeggiamenti dalle parti del Cnel. L’abrogazione dell’art. 99 Cost. parrebbe una decisione capace di mettere d’accordo gran parte delle forze politiche ma, considerati i precedenti, anche il Cnel sembra poter dormire sonni tranquilli ancora per molto tempo.

La bocciatura della riforma costituzionale, dunque, sembra rendere improbabili nuove modifiche dell’organizzazione costituzionale nei prossimi anni, sia quelle organiche sia quelle più circoscritte, ammesso che questa distinzione abbia contorni ben definiti. La conseguenza sarà probabilmente quella di caricare la riforma elettorale di aspettative eccessive e di attribuirle un compito che non le appartiene: quello di correggere da sola le inefficienze di un intero sistema politico, partitico e costituzionale, seguendo dinamiche già viste nel 1993 e che negli anni successivi hanno mostrato tutti i limiti di tale soluzione.

 

 

 

 

* Ricercatore confermato di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Foggia