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Il circuito del consenso

Luca Tentoni - 11.02.2017
Faire l'opinion

Nelle democrazie contemporanee, il ruolo dell'opinione pubblica appare predominante: i sondaggi ci restituiscono quotidianamente indicazioni sulle tendenze politiche e sociali che si vanno affermando, tanto che la classe politica e gli operatori dei mezzi di comunicazione di massa finiscono per attribuire a questi strumenti di misurazione un valore ben maggiore rispetto a quello che oggettivamente hanno. Sembra quasi che le "democrazie avanzate" non sappiano e non possano fare a meno di quello che Patrick Champagne, nel suo "Faire l'opinion - Le nouveau jeu politique" (edito nel 1990, ma giunto con più nuove edizioni fino ai giorni nostri) definisce come una situazione di "elezioni permanenti": "anche se i deputati restano legalmente eletti per cinque anni, la loro legittimità dipende ormai in modo crescente dai risultati dei sondaggi elettorali e dal livello di popolarità". In altre parole, secondo lo studioso francese, gli uomini politici, che sono eletti per decidere, finiscono per essere sottomessi ad una "volontà popolare" espressa nei sondaggi e che sembra rendere possibile il prevalere "di una sorta di democrazia diretta" che dipende, giorno dopo giorno, dal giudizio degli interpellati sui vari temi. Secondo Champagne, la pratica è alla base di un "pensare per sondaggi" che va affermandosi, cioè la tendenza" a convocare in permanenza gli intervistatori per decidere in nome d'una opinione che è stimata come maggioritaria". La posizione critica dell'autore non è certo isolata: già nel 1972, per esempio, il sociologo Pierre Bourdieu muoveva critiche puntuali e sferzanti a questo modo di utilizzare le indagini demoscopiche, in una conferenza dal titolo: "L'Opinion publique n'existe pas". La critica riguardava, fra l'altro, l'impossibilità di misurare e valutare il diverso grado di informazione e di coinvolgimento emotivo dei rispondenti. Non tutti hanno un'opinione su tutto, né tutti possono averne una basata su informazioni sufficienti e ben soppesate. Bourdieu si spinge a dire che "il sondaggio è, allo stato attuale, uno strumento di azione politica; la sua funzione più importante è imporre l'illusione che esista un'opinione pubblica come pura somma di opinioni individuali; a imporre l'idea che esista qualcosa che sarebbe come la media delle opinioni o l'opinione media". L'osservazione risale a 45 anni fa, ma è più che mai attuale. Non colpisce lo strumento - il sondaggio - ma si sofferma sull'uso che se ne può fare in campo politico e mediatico. A nostro avviso, è il modo di porsi al cospetto del "termometro" delle inchieste demoscopiche (una dimostrazione di serietà e completezza del lavoro, per esempio, è il recentissimo sondaggio internazionale Ipsos "Global @Advisor: Le pouvoir au peuple?") a fare la differenza. Del resto, come ha scritto tempo fa Nando Pagnoncelli in un suo libro ("Le mutazioni del signor Rossi") "il sondaggio elettorale e d'opinione, in virtù della sua immagine di neutralità, viene utilizzato per influenzare le opinioni, modificare il clima sociale e gli orientamenti di voto, per legittimare le proprie tesi e delegittimare quelle degli avversari, una sorta di gioco in cui lo specchio può essere deformato e condurre all'amplificazione delle opinioni che trovano conferma in un fenomeno che si autoalimenta, sfuggendo ad ogni controllo". Questo è il punto: scartando l'ipotesi estrema (quella dell'Opinione pubblica "creata in laboratorio") va però valutata quella più realistica, cioè che il "prodotto" non sia viziato all'origine ma venga "avvelenato" dalla "filiera" (stampa, classe politica) e finisca per produrre effetti politici, anziché restare una semplice fotografia di quanto hanno detto le persone intervistate. Nell'"era del maggioritario" in Italia e, più in generale, della "mediatizzazione della politica", i sondaggi hanno avuto spesso la funzione, come afferma Patrick Champagne, di "ridefinire ciò che noi ricomprendiamo con l'espressione fare politica, che consiste nell'utilizzare un insieme di tecniche messe a punto da specialisti in comunicazione che sono destinati ad agire su elettori-spettatori al fine di produrre effetti sull'opinione a sua volta misurata dagli istituti: il cerchio è così chiuso". A questo punto è chiaro che non ci stiamo semplicemente ponendo il problema della corretta impostazione del sondaggio, di ciò che ne accompagna e ne segue la diffusione (dibattito politico, commenti sui quotidiani e in televisione, "rimbalzo" sui social media) ma quello dell'influenza che questo complesso di cose può produrre sulla salute della democrazia contemporanea. È difficile attribuire giudizi basati su criteri quantitativi, come pure si fa talvolta (per esempio con la classifica annuale dell'"Economist" sulla "perfezione" delle democrazie occidentali, per il commento alla quale rinviamo all'articolo di Bruno Cautres "La France, une démocratie perfectible" http://www.pop2017.fr/billet/354/la-france-une-democratie-perfectible) ma possiamo sentirci in grado di affermare con una certa sicurezza che una democrazia non è più compiuta o matura di un'altra se i cittadini (per di più una parte campionaria, non la totalità) si esprimono tutti i giorni su ogni argomento. Ancor più non si può definire più democratico un sistema dove (in modo molto più distorsivo rispetto ai sondaggi, che pure sono bisognosi di cautele, perché debbono superare notevoli aspetti critici e margini d'errore) una platea autoselezionata e più motivata rispetto al resto della popolazione (gli attivisti dei partiti o la "Rete" telematica, alla quale si attribuiscono poteri rappresentativi tutti da verificare) "vota" in permanenza e sfiducia o conferma ogni giorno i propri rappresentanti nelle istituzioni o addirittura le istituzioni stesse. Nel circolo vizioso che tende a costituirsi, una parte di un sondaggio viene utilizzata per creare la "notizia" o l'evento politico, che finisce per inverarsi successivamente, grazie ad un impulso mediatico che spinge l'opinione pubblica verso l'effetto desiderato dal comunicatore. Nella "democrazia mediatizzata" conta l'immagine che si crea di una situazione, di un leader, di una politica. Perciò, si può verificare il caso in cui si "costruisca" a tavolino la vittoria di un candidato. Prendiamo per esempio un dibattito fra più leader, in concorrenza per la stessa carica. La rilevazione che viene effettuata su un campione di spettatori che hanno assistito al dibattito può dare per vincitore uno dei contendenti. Questo aspetto, tuttavia, dipende da molti fattori, non solo dal contenuto delle argomentazioni del candidato "preferito" dai più. Perciò, ci si potrebbe semplicemente limitare a registrare il fatto senza attribuirgli un valore politico più generale. Invece il "vincitore" del dibattito può diventare - nei commenti dei mass-media, dei "social" o, ancor più, dei politici - l'avversario da battere, il favorito. Il che può creare in certi casi un effetto underdog (cioè una concentrazione dei voti sul candidato avverso al presunto vincente, che mobilita l'elettorato situato all'opposto nello schieramento politico) ma - per lo più - esercita un effetto "di rinforzo" (bandwagon, o salto sul carro del vincitore). Così, può accadere - e nelle nostre democrazie accade non di rado - che "uomini nuovi" ascendano facilmente nelle preferenze collettive, finendo per trovarsi proiettati al secondo turno di un ballottaggio o a vincere la competizione. Allo stesso modo, la crisi "mediatica" di un soggetto politico o di un leader può essere enfatizzata per distruggere, con la stessa potenza che si sprigiona al momento della "creazione del mito". Nel circuito del consenso, tutti finiscono però per dipendere da qualcun altro: i politici hanno bisogno dei "mass media", i quali hanno bisogno dei sondaggi (o, meglio, di trovare in questi un dato che "faccia notizia"), i quali - a loro volta - misurano il fluttuare di un elettorato che però è altamente esposto (soprattutto quando si tratta di rafforzare le proprie opinioni o di "sciogliere" i nodi dell'indecisione) all'influenza di politici e mezzi di comunicazione. È vero, certamente, che la democrazia è anche la ricerca del consenso e che ci sono strumenti mediatici che aiutano ad aumentarlo, però bisognerebbe riflettere sui limiti d'uso di questi strumenti, perché possono mutare il corso della storia di un Paese. Tornando ai sondaggi, dunque, ci sembra eccessivo pensare che siano strumenti per "creare" l'opinione pubblica: ci sono istituti e professionisti la cui onestà intellettuale non può essere minimamente essere posta in discussione. Però occorre molta cautela nella trasposizione comunicativa che altri attori (stampa, social media, classe politica) fanno dei dati (soprattutto di quelli che li avvantaggiano, magari sottacendo o negando validità a quelli che li sfavoriscono). Se un solo anello della catena prova a "falsare" il gioco, l'effetto si scarica come in un domino su tutti gli altri. Ecco perché la soluzione non sta affatto nel vietare i sondaggi, ma nell'educare l'"opinione pubblica" a saperli leggere e - se possibile - a "sapersi leggere" meglio. Soprattutto, a non attribuire loro una funzione predittiva che non hanno e non possono avere e neppure a usarli per inverare una predizione.