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Europa tra Brexit e “balcanizzazione” interna

Michele Marchi - 29.06.2016
Brexit

Sarebbe davvero ingeneroso affermare che il recente voto referendario britannico sia la causa di tutti i mali europei. Scegliendo il “leave” la maggioranza degli abitanti del Regno Unito non ha fatto altro che strappare il velo di quell’ipocrisia che, almeno da oltre un ventennio, caratterizza la condotta dell’Unione europea. Il voto per Brexit ha dunque il significato di “disvelamento” di una crisi di lungo periodo. E allo stesso tempo suona come l’ultima chiamata per ripensare, e di conseguenza, ricostruire quell’Unione del XXI secolo ad oggi ancora latitante.

È forse superfluo ricordarlo, ma la scelta del popolo sovrano britannico elimina qualsiasi alibi rispetto all’inazione dei principali leader dell’Europa continentale. Una volta che Londra avrà avviato le procedure per l’uscita e questa si sarà concretizzata, sarà difficile, come troppe volte accaduto, accreditare la teoria dell’impossibile avanzamento sul fronte dell’integrazione a causa del ruolo di frenatore svolto da Londra. Se tutto andrà come previsto, in due anni l’Europa sarà ufficialmente composta da 27 Paesi che non potranno imputare i loro insuccessi al riottoso ed oramai ex-membro britannico.

Il punto è ancora una volta di natura storica. Il processo d’integrazione, almeno quello tradizionale che deve quasi tutto a Jean Monnet, si è concluso nel 1992 a Maastricht. Cioè l’idea di un’Europa sempre più integrata, sempre più ambiziosa o come si era soliti dire l’idea dell’unione come una bicicletta, che se non continua a pedalare non può restare in piedi, si è arenata dopo la nascita dell’unione monetaria. E questo sostanzialmente perché dopo la libera circolazione di merci, capitali e persone e dopo la moneta unica (seppur non allargata a tutti i Paesi membri) serviva un ulteriore salto di qualità. E invece si è perpetrato il paradosso dell’unione economica e monetaria senza unione politica. Quanto tutto ciò sia stato inefficace lo si è visto nelle guerre balcaniche almeno quanto nell’incapacità di fornire risposte coerenti ed unitarie all’insieme di tensioni geopolitiche seguite all’11 settembre 2001 (dalla guerra in Iraq alle primavere arabe passando per la minaccia islamista e per la nuova politica di potenza russa in Europa). La crisi economico-finanziaria della fine del primo decennio del nuovo secolo, ancora una volta, ha evidenziato le carenze e le deficienze politiche, ha smascherato un’Europa che da risorsa si è trasformata in capro espiatorio. E così si spiega l’anti-europeismo crescente e il successo, più o meno in tutti i Paesi membri, di partiti anti-sistema che prima di tutto si oppongono proprio al processo di integrazione.

Brexit si è adagiata su questo terreno instabile e ha ulteriormente illuminato un palcoscenico che, ad oggi, appare davvero zeppo di comparse. Il termine può apparire ingeneroso e forse un po’ forte, ma più ci si allontana dallo storico 23 giugno 2016 e più si ascoltano le prese di posizione di leader comunitari e leader nazionali e più si ha l’impressione che un ulteriore problema sia proprio l’assenza di leadership non solo illuminate, ma perlomeno preparate all’ipotesi del “leave” britannico. L’indeterminatezza dell’attuale fase è anche il frutto dell’ottusa convinzione che l’irreparabile non sarebbe mai accaduto.

Nel caos delle dichiarazioni, dei bilaterali, dei summit improvvisati o delle riunioni già previste (come il Consiglio europeo del 28-29 giugno 2016) si possono comunque cercare di isolare alcuni passaggi che costituiscono altrettante conferme di quanto sia potenzialmente cruciale l’attuale congiuntura.

Prima di tutto bisogna soffermarsi sull’asse franco-tedesco o perlomeno su ciò che resta di questa intesa che affonda le sue radici nei lontani anni Cinquanta del secolo scorso. L’asse, da quell’inizio degli anni Novanta già citato, si è tramutato più in una formula di rito che in un reale coordinamento nella gestione del processo di integrazione. Gli esempi per supportare quest’affermazione non mancano nemmeno nell’attuale post Brexit. Da un lato i ministri degli esteri Ayrault e Steinmeier scrivono e diffondono un avanzatissimo progetto di rilancio dell’integrazione (in francese Pour une Europe plus forte dans un monde incertain). Si parla, come non lo si faceva dal fallimento della Ced, di un esercito comune europeo, si introduce il delicatissimo tema della sorveglianza europea (e non nazionale) delle frontiere esterne e infine su crescita e moneta unica si preconizza una stretta convergenza tra i bilanci nazionali e un’armonizzazione delle politiche fiscali. La ripartenza è segnata, verrebbe da dire. Dall’altro però il testo non è particolarmente pubblicizzato. Pare che addirittura Merkel abbia dichiarato di non averlo discusso con i due responsabili degli affari esteri di Parigi e Berlino. Insomma l’iniziativa è stata depotenziata e soprattutto si è fatta attenzione a non accreditarla come “la” posizione dei due Paesi di riferimento dell’Ue.  

Proseguendo su questa linea non si può poi fare a meno di notare quanto proprio sul dopo Brexit le distanze permangano tra Parigi e Berlino. Hollande ha fretta e vuole l’apertura rapida dei negoziati per formalizzare l’uscita. Il suo prossimo sarà l’anno delle elezioni presidenziali e al momento vorrebbe cercare di accreditarsi come leader europeista e volontarista, per tentare nell’impresa titanica della rielezione. Merkel, dal canto suo, se ha ribadito che Londra non potrà mantenere i privilegi europei senza condividere gli obblighi, predica calma e pragmatismo. Da un lato anche lei si trova a circa un anno dal voto e deve dunque soppesare e ponderare ogni decisione. Dall’altro la cancelliera si presenta come “ponte”, come possibile trait d’union, tra i Paesi che vogliono (almeno nelle dichiarazioni) un’immediata ripartenza, come Francia e Italia, e quelli in particolare dell’est europeo molto preoccupati di fronte a tale ipotesi. Tanto che lunedì scorso, mentre Hollande e Renzi andavano a Berlino per incontrare Merkel, un gruppo di politici e funzionari di dieci Paesi membri (Austria, Bulgaria, Grecia, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Ungheria e….Regno Unito) si sono riuniti per opporsi al ricorso immediato e precipitato alle procedure per l’allontanamento britannico sino ad arrivare ad ipotizzare (su suggerimento polacco) la scrittura di un nuovo trattato, con più poteri al Consiglio europeo e meno alla Commissione, per poi chiedere a Londra un nuovo voto referendario. Al di là dell’improbabilità della proposta, il passaggio è emblematico di questo “malumore” che potrebbe concretizzarsi nell’ennesima linea di frattura che attraversa l’Ue.

E infine, se si vuole essere onesti fino in fondo a proposito dell’asse franco-tedesco, Berlino e Parigi su una serie di dossier europei decisivi - dalla politica economica e fiscale dell’area euro ai dibattiti sul Transatlantic Trade and Investment Partnership passando per l’emergenza migranti – hanno punti di vista diametralmente opposti.

Con un asse franco-tedesco sempre più pletorico, con una Merkel intenta a sfruttare la tradizionale “politica ad est” di Berlino e anche a cercare di mediare con quel fronte dei Paesi dell’ex blocco sovietico non disposti a proseguire verso un’evoluzione compiutamente liberale, è possibile parlare di troika franco-italo-tedesca o addirittura di asse franco-italiano?

Anche in questo caso si finisce per restare delusi. Proprio a seguito dell’incontro a tre – Hollande, Merkel, Renzi – la Polonia non ha esitato a chiedere la condanna di ogni forma di direttorio e implicitamente ha messo sotto accusa ogni ipotesi di Europa a più velocità. Come esercitare questa leadership a tre, eludendo le accuse di direttorio? Peraltro poi la stessa Merkel non è esente da un utilizzo strumentale di questa situazione, proprio perché in ultima istanza non apprezza più di tanto la “compagnia” di Hollande e Renzi e soprattutto la loro insistenza su ricette neokeynesiane da applicare all’attuale congiuntura economica.

Rimane dunque l’ipotesi dell’“asse mediterraneo”, tra Parigi e Roma. Posto che, anche storicamente, la formula non è mai decollata, oggi le difficoltà sono prima di tutto legate a Parigi. Hollande è un leader debole e discreditato, guida indecisa di un Paese che lo è allo stesso modo e che peraltro ha perso credibilità non mantenendo le oramai pluridecennali promesse di riforme, in particolare sul fronte economico e sociale. Renzi, dal canto suo, avrebbe almeno teoricamente una finestra di opportunità, potendo sfruttare il carattere disorganizzato e disomogeneo dei suoi oppositori interni (anche sul tema europeo) e non avendo, sino al 2018, impegni elettorali. Non si deve però dimenticare che la sua “stella” si è offuscata dopo il recente passaggio elettorale amministrativo e la sua posizione potrebbe ulteriormente complicarsi a seguito del referendum sulla riforma costituzionale previsto in autunno. Ma soprattutto l’esercizio di una vera leadership a livello europeo da parte del Primo ministro italiano dovrà elevarsi da quella pantomima condotta sino ad oggi sui decimali in tema di flessibilità e crescita e andare nella direzione di  un complessivo progetto di rifondazione di una Ue per il XXI secolo, contrastando quella attuale, ancora più retrò, una volta concretizzatasi Brexit.

Per l’immediato futuro è difficile non essere pessimisti quanto alla sorte del processo d’integrazione. Peraltro, come in parte ricordato, il 2017 sarà dominato da tre tornate elettorali in Olanda (marzo), Francia (aprile-maggio) e Germania (settembre). La svolta o arriverà nei prossimi mesi oppure dovrà attendere l’esito di questi delicati passaggi elettorali. Per il medio-lungo periodo è impossibile fare previsioni. Un dato è però certo: l’attuale “balcanizzazione” interna all’Ue non può far altro che condannare definitivamente il Vecchio Continente all’irrilevanza nel confronto con il “2+1” (Usa/Cina+Russia). Senza dimenticare che il prossimo voto presidenziale statunitense potrebbe aggiungere ulteriore angoscia e mediocrità ad un quadro già sufficientemente fosco….