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20 aprile 2024
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Erdogan vs. Lawrence d’Arabia: la Turchia, l’ISIS e i confini mediorientali

Carola Cerami * - 04.11.2014
Recep Tayyip Erdogan

Il 13 Ottobre 2014 il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, in occasione dell’apertura dell’anno accademico presso la Marmara University di Istanbul, ha tenuto un discorso controverso, balzato rapidamente in primo piano sulla stampa internazionale.

Secondo Erdogan, per comprendere la profonda crisi dell’intera regione mediorientale, bisogna risalire alle azioni britanniche e francesi dopo la prima guerra mondiale e all’accordo segreto di Sykes-Picot.

“Ciascun conflitto in questa regione è stato disegnato un secolo fa”, afferma con forza Erdogan e arricchisce poi la sua invettiva, citando un celebre ufficiale e agente segreto dell’esercito britannico, Thomas Edward Lawrence, personaggio immortalato poi nel celebre film “Laurence d’Arabia”, diretto da David Lean nel 1962. T.E. Laurence, durante la prima guerra mondiale, dietro indicazione del governo britannico, sostenne e incoraggiò il nazionalismo arabo e la rivolta araba contro l’Impero Ottomano. Erdogan oggi inveisce contro i nuovi “Laurence d’Arabia”: “giornalisti, uomini religiosi, scrittori e terroristi”, che a suo parere sono i nuovi nemici dell’intera regione.

Ma cerchiamo di capire, anzitutto storicamente, di cosa stiamo parlando.

L’accordo di Sykes–Picot fu un accordo segreto, firmato nel maggio del 1916 fra l’Inghilterra, rappresentata da Sir Mark Sykes, e la Francia, rappresentata da François Georges-Picot, per decidere quali sarebbero state le rispettive sfere d’influenza e di controllo in Medio Oriente, dopo il crollo, ritenuto imminente, dell’Impero Ottomano. L’obiettivo era la suddivisione della cosiddetta “Mezzaluna fertile”, cioè l’intera area che va dal Mediterraneo orientale alla Mesopotamia, in due aree di influenza. All’Inghilterra fu riconosciuto il controllo di un’area comprendente la Giordania attuale e l’Iraq meridionale, alla Francia il controllo della regione siro-libanese, l’Anatolia sudorientale e l’Iraq settentrionale. Nello specifico ricordiamo che proprio Thomas Edward Lawrence, si oppose all'accordo di Sykes –Picot, perché quest’ultimo rinnegava alcune promesse fatte agli arabi dai Britannici nel tentativo di convincerli a ribellarsi contro il dominio turco-ottomano. Ma nella narrazione di Erdogan tale particolare non è rilevante.

Ciò che emerge invece con evidenza è l’insofferenza del Presidente turco verso l’ingerenza occidentale nella regione mediorientale e la consapevolezza di trovarsi oggi in un momento cruciale di possibile ridefinizione dei confini dell’intera area regionale. La problematicità e l’ambiguità della politica estera turca in questo particolare momento storico nasce dalla dicotomia fra l’appartenenza all’alleanza occidentale e la forte ambizione turca di intraprendere una propria via di influenza e di ridefinizione regionale.

Il primo nodo cruciale è una differenza di priorità. Erdogan considera prioritario il crollo del regime di Bashar al Assad in Siria, alawita (gruppo religioso mussulmano sciita), e considera tale obiettivo prioritario anche rispetto alla lotta contro il terrorismo fondamentalista islamico dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria), guidato dal feroce Abu Bakr al – Baghdad. Per gli Stati Uniti e gli alleati occidentali invece la lotta all’ISIS è fondamentale, in quanto costituisce anzitutto una “guerra di civiltà”.

La seconda questione riguarda i Curdi. La Turchia considera una grande minaccia l’emergere di un Kurdistan indipendente, capace di esercitare una forte attrazione su tutte le comunità disperse nei vari paesi del Medio Oriente. In tal senso la vicenda dell’attacco dell’ISIS alla città curda di Kobane è emblematico e ha avuto un effetto “paralizzante” sulla Turchia. Erdogan si augura il crollo del regime di Bashar al Assad e la sconfitta dell’ISIS, ma nel frattempo non vuole rafforzare troppo i combattenti curdi di Kobane. I Curdi del Nord della Siria, e in particolare il partito di Unione Democratica (PYD), sezione siriana del Partito dei Lavoratori Curdi di Turchia (PKK), sono schedati come movimento terrorista, tanto da far dire ad Erdogan che “ISIS e PKK per lui sono la stessa cosa: ossia organizzazioni terroristiche.” Così anche durante l’attacco della città curda di Kobane da parte dell’ISIS, la Turchia temporeggia, ritarda ad intervenire e crea un inevitabile malcontento fra gli alleati occidentali.

Nel frattempo Erdogan subisce le pressioni interne, con le elezioni parlamentari ormai vicine e una forte polarizzazione della società turca. Erdogan, ingabbiato nella sua stessa ambizione egemonica e concentrato nell’evoluzione delle dinamiche regionali, sembra sottovalutare la gravità della minaccia rappresentata dall’ISIS. Dotato di enormi ricchezze (in modo particolare i proventi del petrolio), l’ISIS governa un territorio oppresso da leggi brutali e oscurantiste, con un potere che condiziona in ogni aspetto della vita quotidiana, economica, sociale, religiosa e culturale. Il fondamentalismo islamico dell’ISIS sta destabilizzando l’ordine internazionale e considera l’Occidente il nemico principale da abbattere. Di fronte alla gravità di tale fenomeno, la posizione altalenante e a tratti riluttante della Turchia rischia di avere effetti drammatici non soltanto a livello regionale, ma anche internazionale. Erdogan, dopo aver investito sui fondamentalisti islamici in Egitto e sui radicali islamici in Siria, potrebbe commettere un terzo errore cruciale: sottovalutare la barbarie dell’ISIS.

La Turchia negli ultimi anni piuttosto che valorizzare il proprio ruolo di mediatore e di solido alleato occidentale, ha iniziato ad inseguire un ambizioso sogno di leadership regionale, facendo leva sul mondo sunnita, alimentando scontri settari e contribuendo all’attuale instabilità mediorientale. Tuttavia va detto che in tale percorso vi sono anche delle responsabilità occidentali che non possono essere taciute. Fra queste vi è anzitutto la scarsa lungimiranza di alcuni leader europei. La Turchia ha fortemente rincorso la possibilità di entrare a far parte dell’UE. Sebbene con difficoltà e battute d’arresto, ha avviato un importante processo di riforme che, fra il 2002 e il 2006, videro il momento di massima espressione. Ma proprio quando il paese, grazie anche al miracolo economico dell’era Erdogan sembrava crescere in tale percorso, alcuni paesi europei, piuttosto che incoraggiare e guidare il processo di adesione della Turchia in Europa, hanno posto ulteriori ostacoli alimentando una crescente disillusione. Adesso purtroppo restano i cocci di una politica europea miope e ipocrita, che sembra ignorare la complessità di un mondo in evoluzione.

 

 

 

* E' assegnista di ricerca in Storia internazionale all’Università di Pavia e direttore dell’International Center for Contemporary Turkish Studies di Milano