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Eliseo 2017: verso un radicale cambiamento sistemico?

Michele Marchi - 15.03.2017
Macron e Le Pen

Jacques Attali ha di recente definito quella in corso la peggiore campagna elettorale della Quinta Repubblica. I segnali di fastidio, al limite dell’intolleranza, nei confronti della classe dirigente politica non mancano e numerosi sondaggi di opinione parlano di un probabile aumento dell’astensionismo. Peraltro i due candidati che, secondo i dati al momento disponibili, dovrebbero accedere al ballottaggio sono definibili, seppur con caratteristiche differenti, “anti-sistema”. Marine Le Pen lo è per definizione, Emmanuel Macron si è costruito questa immagine lanciando il suo movimento En Marche!, uscendo dal governo Valls e infine decidendo di non partecipare alle primarie del PS, partito al quale peraltro non è mai stato iscritto.

In un quadro ancora molto incerto, a cinque settimane circa dal primo turno del 23 aprile, ci si può soffermare a riflettere con un minimo di attenzione su quattro elementi di una certa importanza e che potrebbero determinare le sorti della presidenziale 2017.

Il primo è senza dubbio l’ascesa costante e quasi prepotente della candidatura Macron. Il giovane enarca è, almeno secondo i principali sondaggi, già con un piede all’Eliseo. Non solo certo di passare al ballottaggio, ma negli ultimi rilevamenti è dato di alcuni punti sopra Marine Le Pen già al primo turno. In tutte le simulazioni di ballottaggio, si tratti di scontro con la leader del FN o con Fillon, Macron sarebbe largamente eletto. Come recenti colpi di scena insegnano (vedi Brexit ed elezione di Trump), i sondaggi sono da manipolare con grande cautela, anche perché il voto a Macron, al momento, è quello catalogato con il più basso coefficiente di certezza e, al contrario, chi dichiara di votare Le Pen è molto più sicuro della scelta. Una volta presa coscienza del carattere solo indicativo dei sondaggi, bisogna aggiungere almeno altre tre incognite legate alla candidatura di Macron. La prima riguarda il suo presentarsi come candidato al di fuori della logica destra/sinistra. Anche se lo stesso Macron fatica ad accettare tale definizione, è difficile non parlare di un candidato “centrista”. Ebbene se si eccettua il caso peculiare di Valéry Giscard d’Estaing nel 1974 (in realtà con un profilo molto più “gollista” che “centrista”), la Quinta Repubblica non pare amare particolarmente le candidature presidenziali che vogliano trascendere la dinamica gauche/droite. È vero che la situazione appare stravolta sia dal consolidarsi del nuovo frontismo, sia dal declino del PS, ma la scommessa “centrista” di Macron qualche perplessità la lascia. Come qualche dubbio si può nutrire sulle sue possibilità, una volta entrato all’Eliseo, di ottenere una salda maggioranza all’Assemblea nazionale nelle legislative di giugno. È vero che sull’onda di un eventuale successo non mancheranno i deputati (ex-socialisti, ex-centristi e anche eletti in precedenza con la destra repubblicana) che correranno alla ricerca di una candidatura sotto l’ala protettiva del neo-presidente. Bisogna però ricordare che il sistema elettorale transalpino per le legislative favorisce il legame tra gli eletti e il proprio collegio. Salvo rari casi le fedeltà politiche e le tradizioni locali sono molto consolidate. La partita da questo punto di vista è tutta da giocare e Macron dovrà dimostrare di avere nel suo entourage qualche fine conoscitore della carta elettorale e delle circoscrizioni francesi. Infine negli ultimi giorni stanno aumentando le prese di distanza da parte di importanti esponenti del PS nei confronti della candidatura ufficiale di Benoît Hamon, a favore del candidato di En Marche!. Questo afflusso, destinato ad aumentare se Macron resterà la vedette dei sondaggi, alla lunga potrebbe nuocere piuttosto che tornare utile. Infatti diluirebbe la portata anti-sistema della sua candidatura e costringerebbe Macron a fare propria almeno una parte dell’eredità del quinquennato di Hollande.

Il secondo elemento sul quale soffermarsi è la tenuta di Fillon, nonostante l’offensiva giudiziaria in corso e la conseguente sovraesposizione, negativa, mediatica. In maniera acuta Fillon ha giocato la carta della legittimità democratica (i milioni di voti ottenuti alle primarie della destra) contro quella dell’azione giudiziaria, sapendo di poter sfruttare il vulnus dell’irrisolto rapporto proprio tra politica e giustizia. Ma ha fatto anche qualcosa di più: si è appoggiato ad una tradizione gollista, sfruttando la suggestione storica del leader che si richiama direttamente, senza mediazioni, al “suo” popolo. In quest’operazione la piazza del Trocadero del 5 marzo 2017 è stata accostata alla manifestazione fiume del 30 maggio 1968 sugli Champs Elysées, grazie alla quale de Gaulle riprese in mano l’iniziativa politica dopo il mese di disordini studenteschi e scioperi operai. Non importa se il paragone storico non ha senso e nemmeno se appare quasi insultante accostare il Generale al grigio Fillon. L’ex Primo ministro di Sarkozy è riuscito a rassembler il suo popolo e ha scommesso su di esso per garantirsi almeno l’accesso al secondo turno. Nelle due settimane in vista dell’eventuale ballottaggio ci sarà poi tempo per aggiustare il tiro, magari per sfumare quella cura liberale che anche di recente Fillon ha presentato come l’ultima chiamata per salvare un modello, quello francese, sull’orlo della bancarotta. Al momento, sempre guardando i sondaggi, la scommessa di Fillon sta pagando solo in parte. L’emorragia di consensi successiva all’affaire Penelope sembra essersi arrestata, ma Fillon è dato comunque fuori dal ballottaggio. Bisogna poi ricordare che al momento della lettura di questo contributo il candidato LR verrà probabilmente ufficialmente indagato e a quel punto bisognerà valutare tutte le conseguenze. Un dato è certo: Fillon è riuscito a rimanere in sella anche perché Les Républicains non avevano un “piano B” credibile. La sonora sconfitta alle primarie di Juppé come di Sarkozy ha reso complicato un avvicendamento che avrebbe probabilmente spostato una parte consistente di voto della destra repubblicana verso Macron e un’altra parte verso Marine Le Pen. Bisogna poi, anche in questo caso, ricordare che non tutto si chiuderà il 7 maggio. Per non pochi deputati uscenti la fedeltà di partito e il radicamento territoriale vanno al di là della logica presidenziale. Un’onorevole sconfitta accanto a Fillon può garantire una successiva rielezione al Palais Bourbon, piuttosto che un salto nel vuoto accanto all’eventuale futuro  presidente Macron.

Gli ultimi due elementi sono per certi versi forse più scontati ma non per questo marginali. Il primo riguarda Marine Le Pen. Tutti i sondaggi confermano la sua presenza al ballottaggio, ma allo stesso tempo la danno sonoramente sconfitta al secondo turno, si tratti di scontro con Macron o con Fillon. Mai come sul voto FN i sondaggi vanno presi con le pinze. Rimane però l’impressione che alla figlia del fondatore manchi ancora la capacità di percorrere l’ultimo miglio. Peraltro la sua campagna si sta svolgendo senza particolari sussulti e, paradossalmente, si sta dimostrando più abile di lei nel sfruttare la carta dell’anti-sistema il giovane Macron. Bisogna fare però molta attenzione su un punto: la “sua” France d’en bas non è mediatica e, come la descrive Christophe Guilluy, è periferica anche rispetto al circolo mediatico. Scorrendo il recente sondaggio pubblicato da Le Monde, l’impressione è quella di una Marine Le Pen che è riuscita ad imporre alcuni temi forti alla campagna elettorale (euro, immigrazione, lotta all’islam) senza però essere capace di legittimare il FN come credibile nel poterli trattare e risolvere. Se oltre tre francesi su dieci si dicono d’accordo con le sue idee, ancora più di cinque su dieci considerano le ricette del FN pericolose per la democrazia. Insomma lo scenario del “molto rumore per nulla” già visto alle regionali del dicembre 2015 potrebbe riproporsi su scala nazionale.

Infine il quarto elemento è rappresentato dallo spettacolo triste offerto dalla inconsistente, almeno sino al momento, candidatura ufficiale del PS. Benoît Hamon, con il suo mix di ecologismo, socialismo umanitario e lotta anti-austerity sta faticando non solo a raccogliere il sostegno dei militanti, ma ad emergere nel dibattito. La sua è una candidatura per ora senza risalto mediatico. L’emorragia degli eletti diventa così inevitabile. Il vero punto è l’impossibilità di ritagliarsi uno spazio politico, stretto tra il radicalismo di Mélenchon (che peraltro sta stentando) e la capacità, sino ad oggi evidente, di Macron di riuscire a giocare il doppio ruolo di candidato anti-sistema ma anche di àncora di salvezza. Le posizioni ambigue e attendiste di Hollande, dell’ex Primo Ministro Valls e dell’attuale Cazeneuve, esemplificano bene quanto la missione di Hamon sia al limite del praticabile. Un onorevole quarto posto, magari oltre il 15%, sarebbe già un ottimo risultato che lo porterebbe a poter negoziare un appoggio decisivo a Macron al ballottaggio e anche una quota rilevante di candidati PS nella futura maggioranza presidenziale, che lo stesso Macron dovrà costruire per le successive legislative.

Se questi appaiono gli elementi più rilevanti nell’evoluzione della campagna elettorale, un ultimo dato sistemico non può essere trascurato. Nella storia della Quinta Repubblica l’aprile 2002 è stato senza dubbio un punto di svolta. La presenza di Jean-Marie Le Pen al ballottaggio aveva sia messo in dubbio la logica bipolare (e bipartitica) del sistema, sia certificato la crisi conclamata di uno dei due assi portanti dello stesso. Le presidenziali del 2007 e del 2012, seppur con una qualche difficoltà, avevano segnalato un’inversione di tendenza e il ritorno ad una logica più tradizionale. Se davvero Macron e Marine Le Pen dovessero arrivare al ballottaggio del 7 maggio ci si troverebbe di fronte al fallimento totale dei due partiti di riferimento della Quinta Repubblica e al trionfo di una dinamica anti-sistema che, probabilmente, aprirebbe le porte ad un ripensamento dell’impianto politico-istituzionale così come voluto da de Gaulle nel 1958-62.

C’è molto in palio tra cinque settimane. Per gli equilibri europei, senza dubbio. Ma per quelli francesi, forse ancor di più.