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Davanti ad un futuro problematico

Paolo Pombeni - 28.10.2020
Dpcm ottobre 2020

L’ennesimo DPCM non ha ristabilito alcuna tranquillità nel rapporto fra politica e società. Più passa il tempo, più la questione centrale diventa la problematicità del futuro che abbiamo davanti: nessuno riesce a proporre un orizzonte verso cui muoversi.  Nella prima fase della pandemia ci si è cullati nel famoso slogan “andrà tutto bene”: sottintendeva che l’attacco del Covid 19 fosse un fenomeno momentaneo a cui certo si era dovuto reagire con misure sgradevoli, ma per un tempo limitato e una fase passeggera. Costi ce ne sarebbero stati, ma il sistema, grazie anche agli aiuti europei, sarebbe poi stato in grado di farvi fronte. Nel subconscio collettivo si pensava ad una emergenza tipo le catastrofi naturali: sono pesanti, a volte terribili, ma finiscono relativamente presto (soprattutto per chi non ne è toccato direttamente e poi si torna come prima).

Del resto quel che è accaduto in estate e la sua stessa coda con le elezioni settembrine sembravano confermare questa impressione. Adesso la seconda ondata ha distrutto questa percezione e il subconscio collettivo pensa più o meno che non sappiamo come si andrà a finire. E’ questo cambiamento che ha spiazzato la politica, tanto per le forze che stanno al governo, quanto per quelle che si collocano all’opposizione. In fondo entrambe avevano ragionato in vista del ritorno ad una quasi normalità che avrebbe semplicemente richiesto di misurarsi con i problemi della “ricostruzione”, che fra il resto si pensava agevolata da una pioggia di miliardi europei.

Oggi ci si rende conto, anche se si fa fatica ad ammetterlo, che non sarà così, o quantomeno che non si è in grado di prevedere quando sarà così. Per questa ragione la stessa ingenua aspettativa sulla Befana da Bruxelles si è ridimensionata: quei fondi potranno servire, quando arriveranno (e non sembra prestissimo), per interventi strutturali, non certo per rimettere in sesto un sistema da consumi diffusi che è quello che viene pesantemente toccato dalla pandemia. Ristorazione, palestre, spettacoli, fiere e sagre, giusto per riunire tutto sotto poche voci non potranno essere fatte rivivere nei termini passati utilizzando i finanziamenti europei e certi cambiamenti indotti nel nostro modo di vivere non sappiamo se torneranno ai livelli precedenti, non fosse altro perché è probabile una restrizione del reddito complessivo disponibile (e non parliamo di fenomeni come il turismo dall’estero che sarà anch’esso ridimensionato, forse pesantemente, da quel che avviene nei vari paesi).

La politica di fronte a questi scenari mostra una debolezza anche maggiore di quel che ci si sarebbe potuti attendere. Innanzitutto perché non si è saputo tenere presente quanto avrebbero pesato di fronte a situazioni di vera emergenza i cambiamenti di mentalità che sono intercorsi negli ultimi decenni. Basterà citare l’ormai dominante preminenza dell’individualismo spinto, che fa pensare a ciascuno che ciò che gli piace o gli serve sia un “diritto”. Non abbiamo solo le affermazioni di persone senza cultura che ritengono  che “anche il calcio è un diritto”, ma la generale percezione di tutti coloro che sono stati toccati nel loro modo di vivere di essere vittime di un abuso da regime dittatoriale. C’è un cortocircuito inevitabile per cui le restrizioni alla libertà di “godere” (ci si consenta questa espressione eccessiva) diventano blocchi alla libertà di impresa, e di conseguenza di guadagno, di tutto ciò che su quel “godere” vive. Intendiamoci: non stiamo facendo alcun discorso moralistico, non abbiamo mai creduto ai miti della “austerità” dei tempi andati. Se è possibile fruire di ottime condizioni di vita, non c’è ragione per impedirlo. Tutto però dipende da quel “se”, perché ove la condizione ipotetica divenisse non realizzabile, o il costo della sua realizzazione creasse problemi alla sopravvivenza della società nel suo complesso (l’epidemia è una situazione paradigmatica per portare questo alla luce), si deve tornare a considerare che il diritto alla gioia propria trova il suo limite invalicabile nel non poter essere esercitato non dico negando, ma neppure mettendo a rischio quella degli altri.

E’ il non disporre più di questa, in fondo banale, etica pubblica che ha spiazzato la politica. Consapevoli di non poter fare ricorso a quelle che un tempo si sarebbero chiamate virtù civiche, se non per un periodo limitato in cui l’eroismo poteva sembrare quasi un gioco eccitante come fu nella prima fase dell’epidemia, i politici si stanno perdendo nelle loro incapacità di programmare. Il governo non solo non sa riconoscere di avere a che fare con un fenomeno che nella prima fase non aveva capito (altrimenti non ci troveremmo nelle condizioni attuali), ma non riesce neppure a fare quei gesti emblematici che sempre nella storia si usano nei momenti critici: licenziare un po’ di persone che non sono state all’altezza della situazione, richiamare in servizio qualche “riserva della repubblica”, varare subito qualche vero progetto di grande impatto (per esempio: subito una revisione a fondo della medicina territoriale; un metodo efficace e molto ben programmato di didattica a distanza).

Sappiamo benissimo perché il governo non lo fa: è consapevole che ciò significherebbe la sua fine e un ridimensionamento di qualcuno dei partiti della sua maggioranza. Ma l’opposizione non è affatto in grado di dimostrare che quei gesti emblematici sarebbe capace di farli, perché si limita a rincorrere tutti i corporativismi e tutte le svariate paure che corrono nel paese, accontentandosi di aspettare che il governo crolli sulle sue incapacità Come se ereditare un cumulo di macerie fosse per lei chissà quale guadagno.