Ultimo Aggiornamento:
27 marzo 2024
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Daniel Blake, Nigel Farage e la sinistra europea

Massimo Piermattei * - 10.12.2016
Daniel Blake

“I, Daniel Blake” è l’ultimo film di Ken Loach (qui il trailer in inglese), fresco vincitore della Palma d’Oro a Cannes e del Prix du public al festival di Locarno. Senza entrare in dettagli capaci di rovinare l’attesa a chi non avesse ancora visto il film, “I, Daniel Blake” è la storia di un carpentiere (un meraviglioso artista del legno) che, in seguito a un attacco cardiaco, si trova a combattere con la spietata razionalità della macchina del welfare britannico. Che da un lato lo reputa inidoneo al lavoro, ma gli nega il sussidio per malattia; dall’altro, gli impone di cercarsi un nuovo impiego (senza però poterlo accettare poiché è stato dichiarato inidoneo!) se non vuol perdere l’assegno di disoccupazione. Nel corso delle sue poco fruttuose peregrinazioni, Daniel incontra Katie, una giovane madre che, come lui, non riesce a vincere la sua lotta burocratica finendo, insieme ai due figli ancora piccoli, in condizioni di povertà quasi disperate. I due stringono un’amicizia bella e solida, tesa a sostenersi a vicenda e ad aiutarsi nelle rispettive battaglie.

A colpire immediatamente, grazie a dialoghi forti e a una fotografia amara, è l’incapacità (che non di rado sconfina nella mancata volontà) del sistema di coniugare l’attenzione all’individuo con la comprensibile esigenza di standardizzare le procedure e creare regole di accesso uguali per tutti/e. È così che Daniel Blake lotta con attese infinite ai call center, moduli da inviare online e procedure assurde (ne è un esempio la “doppia comunicazione” necessaria per notificare il diniego dell’assegno di malattia, una misura pensata a sostegno del cittadino, ma che nel caso di Daniel finisce per paralizzare il ricorso in appello – e quindi penalizzarlo, anziché favorirlo). Mentre Katie manca per pochi minuti l’appuntamento all’ufficio di collocamento ed è costretta a ricominciare  da capo, spingendosi a conoscere il mondo dei “supermercati della solidarietà” (che forniscono generi di prima necessità). Tutelata quindi, eppure abbandonata di fronte ad altre “prime necessità”: ad esempio, è costretta a rubare gli assorbenti al minimarket di quartiere.

Della denuncia di “I, Daniel Blake” contro le distorsioni della burocrazia molto si è scritto. Così come dell’emergenza antropologica sulla quale il film pone con forza l’accento: ovvero la mesta resa dell’individuo di fronte al digitale, alla rivoluzione informatica. Mi pare, tuttavia, che ci sia una questione ancor più politica, che ruota attorno a una domanda di fondo: Daniel e Katie, al referendum del 24 giugno scorso sulla Brexit, come avrebbero votato? Mi immaginavo Daniel e Katie - persone solidali, accoglienti e attente al “vicino”, chiaramente educate a valori tradizionalmente “di sinistra” - che, di fronte al muro di gomma contro cui si trovavano a lottare in solitudine finivano per gettarsi, disperati, nelle braccia di Nigel Farage e Boris Johnson, in un estremo, forse pure incosapevole, atto di protesta. Ho immaginato, poi, i milioni di altri Daniel e Katie che popolano l’Europa in crisi e che si apprestano a votare, rispettivamente, al referendum italiano, alle presidenziali francesi o alle elezioni tedesche. E li ho visti votare, rassegnati e sconfortati, per Matteo Salvini o Beppe Grillo, Marine Le Pen o Frauke Petry. Non per convinzione, ma per frustrazione; per assenza di alternative credibili ai loro occhi.

Ed è qui che entra in gioco la sinistra europea. Già, perché è proprio ai partiti che ne fanno parte che il grido di rabbia dei tanti Daniel e Katie del continente europeo dovrebbe (e vorrebbe) arrivare. “I, Daniel Blake” lancia due sfide enormi agli eredi delle culture politiche del socialismo democratico europeo (e del cristianesimo sociale):

1) come tenere insieme le grandi questioni internazionali – la crisi economica, i movimenti migratori – e le problematiche legate al territorio e agli Stati nazionali? Come evitare guerre tra gli “ultimi”? In numerose analisi di alcuni recenti appuntamenti elettorali, tra i quali anche le elezioni presidenziali statunitensi, si è spesso parlato di una vera e propria ostilità diffusa verso la vocazione internazionale e globale delle élite culturali, economiche e sociali, in contrapposizione con la difesa delle istanze “localiste”. La sinistra è quindi accusata di farsi strenua paladina degli “ultimi” del Sud del mondo, ma di essere altrettanto incapace di difendere i “propri ultimi”, in primis, gli operai.

2) Inoltre, come tornare a occuparsi delle questioni locali, degli effetti della crisi e dell’attacco diffuso alle politiche di welfare in atto ormai da tempo? Perché in fondo il film di Loach illustra un grande paradosso per la sinistra contemporanea: il fatto che le politiche di welfare nella loro massima espressione non solo si sono rivelate incapaci di aiutare gli “ultimi”, ma anzi rischiano di crearne di nuovi: Daniel e Katie, appunto. Assegni per la disoccupazione, sussidi per la malattia, procedure chiare e uguali per tutti… non sono forse tutti “cavalli di battaglia” che le varie componenti della sinistra europea sarebbero pronte a difendere strenuamente? E anche strumenti guardati con invidia da quei Paesi in cui non sono attuabili anche a causa di un disavanzo pubblico schiacciante (penso ovviamente all’Italia, ma anche alla Grecia o, ancora, alla Spagna). Il punto, forse, è proprio questo: come rafforzare e rendere più efficaci quelle politiche di coniugandone la praticabilità con l’esigenza di tenere al centro l’individuo con la sua unicità e con i suoi bisogni?

Ecco: mi pare che dare risposta a queste due domande sia un passaggio ineludibile per qualunque partito che voglia dirsi “di sinistra” nell’Unione europea di oggi. Diversamente, l’esito di alcuni prossimi appuntamenti elettorali e il conseguente rafforzamento di nazionalismi e populismi (il cui effetto è chiaro a chi abbia una conoscenza anche minima della storia della prima metà del Novecento europeo) mi pare scritto in partenza.

 

 

 

 

Professore a contratto Università della Tuscia